venerdì 30 settembre 2016

Off the well

Ed eccoci così giunti alla conclusione. Salutiamo Sadako, salutiamo lo Speciale Ghost in the Well e chiudiamo definitivamente questa faticosissima parentesi. 
Non ci sono parole per spiegare lo stress mentale al quale questo progetto ha sottoposto i suoi autori. Il plurale non è casuale, visto che non ce l’avrei mai fatta senza il continuo supporto di Simona che a un certo punto, quando le cose si sono messe al peggio, ha preso in mano la situazione e si è messa a produrre quei contenuti che al solo pensiero il sottoscritto provava un inquietante senso di repulsione. Ancora oggi, che dovrei essere più o meno fuori dal tunnel, quando chiudo gli occhi appare davanti a me il profilo di Sadako che mi guarda e che mi tormenta. È forse questa la vera maledizione di Ring? Quella di tormentare un piccolo blogger che non ha fatto nulla di male se non parlarne fino all’esaurimento? Ad ogni modo, oggi è finita. Oggi è il momento di tirare le somme di questo lungo lavoro. 
Com’è andata? A me pare sufficientemente bene. Avrebbe potuto andare meglio, questo sì, e vi assicuro che la mia non è falsa modestia. Nella mia mente Ghost in the Well poteva davvero elevarsi di parecchio rispetto alla media degli “speciali Ring” che hanno invaso la rete negli ultimi vent’anni. Così non è stato per vari motivi, non ultima la necessità di portare a termine il lavoro in un tempo accettabile, particolare questo che mi ha convinto a tapparmi il naso su certi passaggi a mio parere insoddisfacenti. Il mio comunque è un giudizio di parte, espresso tra l’altro a caldo. Non sono comunque io a doverlo esprimere: da un lato sarà il tempo a dare una risposta, dall’altro sarà il giudizio di chi è passato (o passerà) di qui a contare davvero. Una cosa è certa: per un bel po’ di tempo non vorrò più sentir parlare di Ring. Ho bisogno di disintossicarmi.

mercoledì 28 settembre 2016

Una montagna di carta

Si approssima alla conclusione il lunghissimo speciale che Obsidian Mirror ha dedicato a una delle icone horror più celebrate degli ultimi vent’anni. Ghost in the well, che ci sta tenendo compagnia da tempo immemorabile, ha messo in fila uno dietro l’altro ben ventitre articoli (il ventiquattresimo, quello conclusivo, uscirà come di consueto l’ultimo giorno del mese). Un lavoro mostruoso le cui dimensioni non mi erano ancora ben chiare quando, sul finire dello scorso inverno, ebbi la malaugurata idea di infilarmi in questo ginepraio. Per realizzare ventitre articoli io e la mia ragazza ci siamo guardati (spesso anche più di una volta) undici film, tra cui un vecchio classico anni Cinquanta, un remake coreano e due remake americani, due serie TV per un totale di venticinque episodi (visti e rivisti una seconda volta, perché non si sa mai possa esserci sfuggito qualcosa), ci siamo letti i libri di Kōji Suzuki, i manga di Hiroshi Takahashi, ci siamo bruciati gli occhi su internet alla ricerca dei tasselli più invisibili, ci siamo dannati l’anima a ragionare sui pro e contro, su ciò che andava assolutamente detto e su ciò che poteva anche andare taciuto, abbiamo sottratto ore al sonno per poter arrivare in tempo agli appuntamenti che ci eravamo prefissati. Ma, alla fine, siamo riusciti a concretizzare davvero quello che avevamo in mente? Abbiamo detto tutto quello che c’era da dire? Non proprio: ci vorrebbe come minimo un terzo mese di speciale per completare l’opera ma, ve lo dirò chiaramente, arrivati a questo punto non ne possiamo davvero più di Sadako. Cosa avremmo potuto dire ancora, vi starete chiedendo?

lunedì 26 settembre 2016

Sadako 3D

Ebbene sì, siamo ormai alla frutta. In che senso? Beh, innanzitutto nel senso che questo lungo speciale volge ormai al termine ma, ahimè, anche nel senso che le ultime cartucce che ci rimangono da sparare sono le più terribili. Pensavate di aver già toccato il fondo l’ultima volta? Pensavate che certe espressioni di cinema-spazzatura potessero nascere, crescere e proliferare solamente nel Belpaese o giù di lì? Niente di più sbagliato perché, e questo post di oggi ne è la prova, il Giappone ha molto da insegnare a noi occidentali in termini di pattume cinematografico.
Ciò ovviamente nulla toglie alla grande tradizione artistica di cui, a ragione, l’impero del Sol Levante può vantarsi, ma di fronte a certe boiate anche la logica crolla a livello subatomico tra fantasmi e ombre (cit.).
Abbiamo visto sinora una dozzina di film, tra sequel, prequel, re-boot, remake di sequel e sequel di remake, abbiamo visto serie tivù, versioni coreane e americane e chi più ne ha più ne metta. Abbiamo anche sperato, nel nostro più profondo intimo, che il secondo capitolo a stelle e strisce rappresentasse la definitiva lapide di Sadako Yamamura, ma la storia ha voluto diversamente e così, quando ormai eravamo a un passo dal poter chiudere in grande stile questo speciale, ecco capitarci fra capo e collo “Sadako 3D”!
Uscito nelle sale solo nel 2012 a seguito di una campagna di marketing senza precedenti, “Sadako 3D” si è inserito in un franchising consolidato, se n’è appropriato e lo ha fatto letteralmente a pezzi partendo dalle fondamenta. Quasi vent’anni dopo il primo Ring, e questo possiamo concederglielo, poteva apparire leggermente datata la scelta della VHS come mezzo di trasmissione di un virus, ma costringere Sadako a irrompere in questo mondo attraverso lo schermo di un iPhone, permettetemelo, è davvero troppo.

venerdì 23 settembre 2016

Clonazione

La seconda serie TV suggerisce velatamente un parallelismo fra virus biologico (il veleno, vīrus, dei latini) e virus informatico, perché Sadako finisce in una rete di computer dalla quale, tramite internet, le sarebbe teoricamente possibile raggiungere e infettare un numero spropositato di persone (la minaccia di Kenichi Azuma di sterminare l’umanità in questo modo occupa proprio le puntate finali della serie).
In effetti anche il virus informatico, introdotto in un organismo, in questo caso una macchina, è in grado di infettarlo e di replicarsi al suo interno.
Nella peggiore delle circostanze compromette il sistema operativo del pc e spesso non ci si accorge della sua presenza finché il danno non è esteso.
Ricordate quando la volta scorsa abbiamo accennato a come le cellule dell'organismo ospite sembrino "possedute" dal virus? Come un virus, anche Sadako è allo stesso tempo viva e morta, o meglio si trova in uno stato intermedio fra la vita e la morte. Ma Sadako può anche essere vista come una sorta di divinità, o forse un demone, in grado di prendere possesso di un altro organismo. Lo stesso può dirsi della videocassetta, e perfino dell’altra “volontà” che ne ha permesso la creazione (il virus del vaiolo) e del risultato di quel miscuglio di geni (il virus Ring) che si trova nella cassetta stessa. È per questo che nel reportage “Ring” scritto da Asakawa nel primo romanzo di Suzuki la risoluzione dell’enigma (che, come dovrebbe essere ormai chiaro, non consiste affatto nella sepoltura dei resti di Sadako, ma nella duplicazione della cassetta), viene definita “esorcismo”? Attenzione, bisogna sempre tenere a mente che, qualsiasi cornice scientifica Kōji Suzuki possa aver dato alla sua storia, l’elemento soprannaturale è altrettanto importante, a parte il fatto che è proprio su quello che le varie trasposizioni (cinematografiche e non) dell’opera hanno puntato per garantire e reiterare l’effetto horror.

mercoledì 21 settembre 2016

Mutazione

Più che un approfondimento, l'articolo di oggi vuol essere il modo di mettere nero su bianco alcune riflessioni che riguardano i temi scientifici trattati nella storia di Ring. Ma potrebbe esserci anche dell’altro. Mettere i miei pensieri in ordine non sarà facile, ma ci proverò. 
Uno dei punti deboli della saga sembrerebbe essere l'innesto di elementi scientifici all’avanguardia in un contesto che ai nostri occhi appare, ahimè, datato, il che se vogliamo è un po' il rischio che corrono, con il passare del tempo, tutte le opere che sfiorano questi temi, per via del confronto con il nuovo che avanza. 
In realtà, questa percezione è legata prevalentemente agli adattamenti televisivi dei romanzi di Kōji Suzuki, le serie “Saishūshō” e “Rasen” delle quali abbiamo parlato pochi giorni fa. Benché siano state realizzate entrambe alle porte del Duemila, l’impressione è che siano molto più datate, e anche se l’azione non viene mai a mancare, le due serie ricordano irrimediabilmente delle soap opera, un po’ per la sceneggiatura e un po’ per il taglio delle inquadrature e l’uso delle musiche; l’aspetto dei due prodotti appare inoltre amatoriale anche se, bisogna ammetterlo, molto può essere dovuto alla bassissima risoluzione (ad occhio un 480p@25fps) con la quale sono state caricate su YouTube. Non è quella, tuttavia, l’impressione che si ricava dalla lettura dei romanzi. Perfino il primo, che a suo tempo ho definito “senza infamia e senza lode”, e che comunque a scanso di equivoci è ben scritto e piacevole da leggere, può essere rivalutato alla luce del suo avvincente sequel, che poi è anche il capitolo che segna davvero l’incursione della storia in campo scientifico.

domenica 18 settembre 2016

American Rings

Ecco che è giunto il momento di affrontare una delle parti se vogliamo più spinose dell’intero speciale. E quando dico “spinose” intendo affermare che non sentivo davvero un gran bisogno di scriverlo, questo post. Se sono qui a farlo è solo perché uno speciale così lungo e approfondito non poteva dirsi completo se non citando, seppure brevemente, tutto ciò che è successo immediatamente dopo il travolgente successo del Ring di Hideo Nakata.
Immediatamente? Beh, non proprio, visto che ci vollero ben quattro anni affinché le case di produzione hollywoodiane si accorgessero del fenomeno Ring e se ne appropriassero.
Naturalmente, come accade sovente in questi casi, per Ring fu la consacrazione definitiva e il successo divenne planetario. Tra l’altro, è bene sottolineare che l’horror occidentale aveva trovato con Ring un nuovo canale dal quale attingere e con il quale potersi lasciare finalmente alle spalle i vecchi cliché del genere, quelli che da anni ormai avevano annoiato a morte anche i più irriducibili appassionati. Diciamocelo chiaramente: per quanto apprezzabili, se non in alcuni casi addirittura pregevoli, i numerosi tentativi di fare horror negli anni di fine millennio andavano poco più in là della riproposizione di situazioni viste e riviste un milione di volte, sfociando spesso in una sorta di horror-pop imbarazzante. Mi dispiacerebbe dover sminuire in poche righe il duro lavoro di centinaia di attori, registi e produttori, ma sarete certamente d’accordo con me quando dico che dodici film della serie “Venerdì 13”, dieci “Halloween”, nove “Hellraiser”, nove “Nightmare” e otto “Amityville” sono stati molto più che abbastanza.

giovedì 15 settembre 2016

Gli spiriti dell'acqua

Umi-bōzu (海坊主)
La centralità dell'acqua nella mitologia ha a che fare tanto con il suo potere di creazione che di distruzione, a partire dal mito biblico della genesi, in cui lo spirito divino aleggia sulle acque della creazione, fino a quello del diluvio universale volto a punire un'umanità infedele a Dio. Due racconti che difatti ricorrono, con poche variazioni, fra moltissimi popoli. In particolare, la concezione di una distesa di acque primordiali è praticamente universale: per molte culture, anche geograficamente lontanissime, se non agli antipodi, su queste acque galleggiava un uovo da cui sarebbe nato il mondo, il più famoso dei quali è senz'altro il Brahmanda della civiltà vedica. Spesso, come fra i cinesi, le acque primordiali simboleggiano il Caos prima della creazione (Wu-chi). Molte popolazioni, inoltre, veneravano divinità dell'acqua e della pioggia. L'acqua è anche elemento rituale, come nel sacramento del battesimo che lava via i peccati, o nelle abluzioni richieste agli ebrei e ai musulmani prima della preghiera. Abluzioni che, pur diverse nella forma, sono pratica comune anche in India e in generale nei paesi del Sudest asiatico. Vi è poi una ricorrente analogia fra acqua e saggezza, ad esempio nel Taoismo la saggezza viene concepita come libera e senza costrizioni come l'acqua che scorre seguendo la pendenza naturale del terreno, mentre per i cristiani l'acqua della saggezza, o Spirito Santo, dimora nel cuore del saggio. Nel Medioevo si consolidò la concezione dell'acqua come vita spirituale offerta da Dio e di cui Gesù è la sorgente. Il fatto che, ancora adesso, nelle più famose mete di pellegrinaggio vi siano delle sorgenti e che le loro acque vengano considerate sante e gli vengano attribuiti poteri curativi e spesso miracolosi è un retaggio degli antichi culti che si concentravano, appunto, attorno alle sorgenti.

martedì 13 settembre 2016

Sadako, l'acqua e l'asceta

En no Gyōja
Dopo aver accennato in precedenza al significato archetipico e mitologico del pozzo, è ora di spendere qualche parola anche su un altro elemento ricollegabile a Sadako Yamamura: l’acqua. Il legame di Sadako con l’acqua si deve non tanto a quel pozzo nel quale è stata gettata ed è rimasta così a lungo, ma alla natura stessa del personaggio. Sappiamo che l’acqua – che in senso lato è brodo primordiale, liquido amniotico, sangue, clorofilla – è principalmente la sorgente della vita, ma è anche un simbolo di rigenerazione e purificazione spinte fino al punto di arrecare la morte, perciò essa è allo stesso tempo creatrice e portatrice di distruzione, il che giustifica anche il suo legame, all'apparenza paradossale, con l'elemento opposto, il fuoco
Come simbolo cosmogonico, l'acqua presenta un'altra dualità: quella fra la sua natura maschile e quella femminile. L'acqua è infatti sia seme divino, “uranico”, che feconda la terra, sia elemento “lunare” (perché fertile e legato quindi al sangue mestruale), che nasce dalla terra e dall'alba e permette la fecondazione. L'acqua come elemento dalla natura ambivalente di vita e di morte è stato sfruttato in tutti i film della serie mentre, come abbiamo già visto, il dualismo fra maschile e femminile è appannaggio solo del capostipite, “Kanzenban” di Chisui Takigawa, che lo riprende pari pari dal romanzo di Kōji Suzuki: la Sadako letteraria, infatti, è ermafrodita. Pur essendo biologicamente un maschio, Sadako ha l’aspetto (e la psicologia) di una bella donna e suscita le attenzioni di molti uomini, uno dei quali, scoperta la sua vera natura e sentendosi umiliato da lei, dopo averne abusato arriva a ucciderla. Ma una Sadako ermafrodita e per di più con poteri ESP così letali non è un po' troppo? 

sabato 10 settembre 2016

Ring TV: Rasen

Lo stesso anno di “Ringu: Saishūshō”, il 1999, la Fuji Television propose una seconda serie TV (*) dedicata alla saga di Ring intitolata come l’opera a cui si ispirava: “Rasen” (Spiral), il secondo libro di Kōji Suzuki. Possiamo considerare questa serie un sequel della prima, anche se in realtà le loro storie hanno in comune soltanto l’ambientazione e la premessa, ovvero la maledizione di Sadako. Anzi, “Rasen” eredita da “Saishūshō” anche il personaggio di Mai Takano (sempre naturalmente con il volto di Akiko Yada), e in un ruolo forse anche più cruciale. Per il resto, il parziale cambio dei registi coinvolti nel progetto non apporta alcun sostanziale miglioramento tecnico: con quella patina un po’ rétro, i due prodotti sono visivamente molto simili, sebbene a mio parere nel secondo ci sia un uso migliore della colonna sonora (sempre onnipresente e spesso invasiva, ma almeno più azzeccata). 
La serie strizza più volte l’occhio al Ring di Nakata, soprattutto quando ripropone una sua versione della famosa scena di Sadako che sbuca all’improvviso dallo schermo del televisore. Anche se non si trattava certo di una novità, credo che la visione di quelle immagini debba essere stata piuttosto spaventosa per un pubblico televisivo come quello di “Rasen”. 
L’idea degli autori era probabilmente quella di dare un’impennata decisa ai momenti horror e in qualche caso (come nella terza puntata, ad esempio) è esattamente ciò che avviene, anche se nel complesso il tasso di terrore è altalenante. La serie tv “Rasen” fa comunque più paura del film omonimo, che dal quel punto di vista offre davvero il minimo sindacale.

giovedì 8 settembre 2016

Ring TV: Saishūshō

Finora abbiamo esplorato varie versioni cinematografiche di Ring: “Kanzenban” di Chisui Takigawa, il primo e il secondo capitolo di Hideo Nakata, il sequel apocrifo “Spiral” (Rasen) di Jōji Iida, il prequel “Ring 0: Birthday” di Norio Tsuruta e, infine, proprio all’apertura di questa seconda parte dello speciale, la versione coreana “The Ring Virus”. Come avrete notato mancano ancora all’appello i remake americani, ma non siate troppo precipitosi, c’è ancora un bel po’ di cose di cui parlare prima di arrivare a quelli. Occorre innanzitutto cercare di chiudere idealmente “l’anello asiatico”, che nel 1999 si arricchì di nuovi interessanti (quanto sconosciuti a noi occidentali) capitoli. Avete capito bene: ho proprio scritto 1999. In quello stesso anno, proprio mentre veniva alla luce “Ringu 2” di Nakata, l’emittente giapponese Fuji Television in coproduzione con la Kyodo Television proponeva al proprio pubblico la miniserie tv “Ringu: Saishūshō” (リング, 最終章, Ring The Final Chapter). “Saishūshō” è in linea teorica l’adattamento del primo romanzo Kōji Suzuki, “Ring”, ma nella pratica numerose linee narrative sono inventate di sana pianta: la durata globale prevista (una decina di ore complessive) richiedeva evidentemente diversi personaggi di contorno utilizzati da un lato per creare false piste e suspense, e dall’altro per aumentare l’effetto drammatico. Alla voce “Ringu: Saishūshō” di wikipedia si dice che quella che ho appena definito banalmente “serie tivù” è in effetti un dorama, parola che deriva dall’inglese “drama” e che è usata per indicare un certo genere di format televisivo giapponese. Non necessariamente si tratta di prodotti raffazzonati o di scarsa qualità. Anzi. Molti dorama sono basati su manga di successo e questo garantisce loro, se non altro, maggiore varietà di generi e trame di quanta non ve ne sia nelle fiction di casa nostra.

martedì 6 settembre 2016

Dance of darkness

Quando nel secondo articolo dello speciale di Ring ho introdotto la figura di Sadako, ho fatto quello che inevitabilmente fanno tutti, chi prima e chi dopo: ho posto l'accento sulle sue caratteristiche fisiche e sul suo incedere claudicante, sbilenco e bizzarro, al limite dell'umano. È giunto il momento di riflettere un momento sulle ragioni per cui tutto ciò appare così terrificante per lo spettatore, quasi oltre la soglia della sopportabilità. La risposta a tale quesito pare ovvia, ma non è detto che lo sia davvero.
Come tutti i fantasmi in cerca di vendetta, anche Sadako ha alle spalle una storia di terribile violenza culminata con la sua uccisione, una storia da cui non si può prescindere. Come tutti i fantasmi, Sadako si mostra alle sue vittime trasfigurata dalla morte, gli occhi spiritati, il viso pallido ed emaciato e i lunghi capelli spettinati, ondeggianti davanti al viso. Il vero colpo di genio di Hideo Nakata è però quello di donarle delle movenze molto particolari: Sadako si muove a scatti, ora lenta ora inaspettatamente veloce, come un maratoneta che risparmi le forze per il rush finale; gli arti assumono pose innaturali, le articolazioni scricchiolano. Nessuna persona nel pieno del vigore e della salute potrebbe mai muoversi a quel modo. Ognuno di quei movimenti è uno spasmo di dolore che ci parla di una lunga e solitaria agonia nelle buie profondità del pozzo.
La Sadako di Nakata, insomma, non comunica solo con il suo aspetto esteriore, ma utilizza il linguaggio del corpo per narrare la sua storia, per mostrarci che è in preda all'odio e al rancore, ma anche che soffre e ha sofferto. Solo il pubblico occidentale può aver pensato che questo fosse qualcosa di nuovo, di mai visto prima: la realtà, per il pubblico giapponese, è un po' diversa.

sabato 3 settembre 2016

Ghost in the well

Nel corso della prima parte di questo speciale ci siamo addentrati nella meandri della leggenda di Okiku, quell’affascinante personaggio del folklore giapponese al quale la saga di Ring deve in qualche modo la sua stessa esistenza. La vicenda di Okiku, uno dei fantasmi più celebri e celebrati del paese, si tramanda ormai da diversi secoli (almeno quattro, stando alle testimonianze giunte sino a noi), e nel corso del suo lungo cammino i suoi contorni si sono più volte alterati, come è normale che avvenga quando la sopravvivenza di una leggenda è affidata alla narrazione orale, lasciando spazio a un incredibile numero di variazioni sul tema.
Abbiamo già descritto alcune di queste versioni qualche mese fa e tutte hanno in comune il finale tragico, quello che vede la giovane serva Kiku gettata in un pozzo e lì abbandonata a una lenta agonia. L’assassino il più delle volte è identificato in un samurai ribelle, Aoyama Tessan o Asayama Tetsuzan, un uomo reso folle di desiderio a causa del suo amore non corrisposto. In altre, rare occasioni si è preferita una soluzione più romantica, lasciando al succitato samurai la più positiva parte del paladino della giustizia. Comunque vadano le cose, Okiku trova una delle morti più terribili che si possano immaginare e, com’è quasi superfluo sottolineare, lo spirito di Okiku, una volta abbandonate le spoglie mortali che lo tenevano prigioniero, si trasforma in un temibile onryō (怨霊), un inarrestabile “terminator” vendicativo che non farà fatica a trovare la strada di ritorno dal regno dei morti.

giovedì 1 settembre 2016

The Ring Virus

Sembra quasi ieri che questo lunghissimo speciale su Ring era stato messo in pausa. Sono passati invece quattro lunghi mesi, quattro mesi durante i quali siamo passati dal freddo al caldo più insopportabile a temperature di nuovo accettabili, almeno qui da me. Se fossimo in una serie televisiva, a questo punto ci starebbe bene un riassunto delle puntate precedenti, ma visto che qui non facciamo televisione, e visto che i post precedenti all’occorrenza sono facilmente recuperabili, direi che possiamo senz’altro saltare a pie’ pari tutti i convenevoli, con la sola raccomandazione, qualora ve ne fosse bisogno, di fare mente locale su tutto quanto è già stato detto e su quanto ci eravamo ripromessi di andare a dire. 
Nell’ultimo articolo della prima serie avevamo dedicato poche parole a quello che, per quello che ci era allora dato di sapere, rappresentava uno dei capitoli più anomali dell’intera saga. Il sequel “apocrifo” (il virgolettato è necessario) fu girato appena dopo la prima versione di Hideo Nakata e rappresentava (o avrebbe voluto rappresentare) la trasposizione cinematografica del secondo romanzo di Kōji Suzuki, vale a dire “Spiral”, che di “Ring” (ovvero del cerchio) rappresenta una delle possibili evoluzioni, non ultima quella geometrica. A differenza del sequel ufficiale, come avevamo visto, in Spiral la videocassetta cessava improvvisamente di essere essenziale nell’economia della vicenda. Era risultato ben presto evidente, senza doversi inoltrare nuovamente nella questione, che il titolo del film (ma anche, sottolineamolo, del romanzo) fosse un chiaro riferimento alla genetica e, nello specifico, alla struttura a doppia elica del DNA: se era questo lo sviluppo che aveva previsto lo scrittore giapponese, allora ci vediamo costretti a rivedere sotto una diversa luce tutto quanto è emerso nei lungometraggi che abbiamo già analizzato, vale a dire nel secondo Ring di Nakata e in Ring 0  (immaginato come un prequel) di Norio Tsuruta.
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