venerdì 23 dicembre 2016

It's Christmas!

Mi perdonerà il compianto Gene Wilder se ho voluto usare la sua immagine e parafrasare una delle battute più celebri (It's alive!) del suo film più geniale. Ma d'altra parte, sebbene si stiano approssimando giorni che ci vorrebbero felici e sereni, come non concedere un piccolo pensiero a chi in questo anno funesto ci ha lasciato. Questo duemilasedici ci ha portato via tanti di quei miti che non oso nemmeno tentare un riassunto, certo come sono di dimenticarne a decine. Ma non è tempo per le lacrime, oggi è il giorno dei saluti e degli auguri. Oggi è il giorno in cui il blog, come di consueto, abbandona i lettori alle loro gozzoviglie e si infila nella sua solita tana nella quale trascorrerà una quindicina di giorni (anche venti, via) di letargo assoluto.
D'altra parte qui si è sempre sposata la politica dello slow-blogging, e non c'è niente di meglio di una sana festa comandata per mettere in naftalina questa piccola attività.

venerdì 16 dicembre 2016

Una luce su Carcosa

Ed Emshwiller illustration for
A Case of Conscience, If (September 1953).
In questo anno duemilasedici che volge ormai al termine, provo a riprendere il filo del discorso lasciato interrotto senza una spiegazione ormai un anno fa. 
Non starò qui a sciorinare scuse o giustificazioni, perché non c'è davvero nulla, se non la pigrizia, che mi abbia impedito di trovare il modo per proseguire, in un tempo accettabile, il lungo viaggio verso Carcosa e i suoi misteri. Riprendo oggi più o meno da dove ero rimasto, sperando che non sia troppo difficile, almeno per chi era abituato a seguire questa serie di post, affrontare lo stress da rientro. 
Sì, ma dove ero rimasto? Beh, tecnicamente non sarebbe del tutto esatto affermare che degli Yellow Mythos da queste parti non si è più parlato da un anno. Quel breve racconto che avevo pubblicato nel mese di luglio (Yuggoth, ndr), unitamente a quel breve pezzo sul lovecraftiano "The Whisperer in Darkness", erano in un certo senso l'anticamera di questo agognato ritorno. Perché dico questo? Perché ancora una volta è Howard Phillips Lovecraft il passaggio attraverso il quale, abbastanza prevedibilmente, decidiamo di a procedere. Ad accompagnarci in questa tappa del nostro cammino un virgilio d'eccezione, uno degli autori di fantascienza più controversi del ventesimo secolo: ladies and gentelmen, Mr. James Blish!

domenica 11 dicembre 2016

Orizzonti del reale (Pt.10)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Mangiare un frutto significa far entrare in noi una cosa viva, bella, come noi nutrita e favorita dalla terra; significa consumare un sacrificio nel quale preferiamo noi stessi alla materia inanimata. (Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano)

Nelle scorse puntate di Orizzonti del reale abbiamo esaminato alcune delle idee che costituiscono l'ossatura del saggio di John Marco AllegroIl fungo sacro e la croce”. Prima di tutto, abbiamo discusso delle radici filosofiche della religione, secondo le quali la madre terra forniva sostentamento agli animali e all'uomo per intercessione del dio, e di come questo abbia dato origine al concetto di rimborso, una compensazione o sacrificio per il mantenimento dell’equilibrio della natura, che doveva essere altrettanto prezioso di ciò che alla natura era stato sottratto: il miglior frutto del raccolto, il più forte e prezioso dei figli. Non occorre che rammenti io quanto il Vecchio e il Nuovo Testamento ricorrano al tema del primogenito: Isacco, Samuele e lo stesso Gesù, solo per fare degli esempi, erano dei primogeniti. Ricordiamo anche che la decima piaga inviata da Dio sul paese d'Egitto secondo Esodo 12:29-30 era proprio la morte dei primogeniti, inclusi quelli del bestiame.
Abbiamo anche visto come l'uomo si servisse delle piante a scopo curativo e di come la farmacologia avesse permesso il nascere di una casta di medici-astrologi che, col tempo, dovettero trovare la maniera più opportuna per tramandare le proprie conoscenze relative ai nomi segreti e all'uso delle piante: questo probabilmente costituì il nucleo dei culti misterici che caratterizzarono l'antichità, i cui iniziati erano i discendenti dei medici-astrologi delle epoche precedenti. 

martedì 6 dicembre 2016

Il violino dell’impiccato

È da diverso tempo ormai che la mia attenzione sembra essere attratta dai vecchi autori del fantastico vissuti nel diciannovesimo secolo. Credo che in primo luogo questa mia piccola mania potrebbe essere nata grazie a quella vecchia intervista che feci qui sul blog ad uno dei più curiosi cercatori di tesori dimenticati che mi sia mai capitato di incontrare; in secondo luogo, parte della responsabilità di quanto sta accadendo è da ricondursi alla (ri)scoperta di alcuni libri ritornati sorprendentemente alla luce spolverando le seconde file della mia fagocitante libreria, in terzo e ultimo luogo… beh, si direbbe che la mia curiosità venga continuamente stimolata dai numerosi titoli che, quasi come se ne fossi l’unico destinatario, continuano ad essere proposti da alcune realtà editoriali che sono solito tenere d’occhio, anche se non necessariamente per lo stesso motivo. È questo il caso della Nero Press che, solo poche settimane fa, ha voluto riesumare alcuni incredibili racconti usciti dalla fantasia di una coppia scrittori francesi di origine alsaziana che sinceramente non conoscevo: Emile Erckmann e Alexandre Chatrian
Sebbene la mia lista di letture abbia ormai abbondantemente superato il punto di non ritorno (nel senso che non credo mi rimangano abbastanza anni da vivere per poter arrivare a leggere tutto ciò che vorrei), ho deciso di promuovere le 150 paginette di cui è composto “Il violino dell’impiccato e altri racconti" in posizione privilegiata e, stavolta davvero a tempo di record, sono qui a parlarne e a condividere con voi ciò che da questa lettura è scaturito. Proporrò due righe sugli Autori in calce, nel caso vi stiate chiedendo chi siano (righe che andrò per inciso a prelevare spudoratamente dal sito della casa editrice).

giovedì 1 dicembre 2016

Vasi comunicanti... artificiali

Dennis Stock - James Dean walking in the rain
in Times Square New York - February 1955
Ogni personaggio che si rispetti vive in un mondo creato dal suo autore, che naturalmente prende spunto dalla realtà. Una realtà che spesso e volentieri può essere artificiale. Non solo mari, montagne, laghi e fiumi, ma anche città, edifici, ponti, lampioni, negozi e tutto ciò che possa essere definito artificiale, sia esso creato dalla mano dell'uomo, sia esso solo immaginato.
Dopo circa un mese dal mio post precedente dedicato ai paesaggi naturali, eccomi di ritorno per ritentare lo stesso con paesaggi di tutt'altro tipo. Mi ricollego naturalmente all'articolo "I quadri, i romanzi e... i paesaggi artificiali" pubblicato qualche settimana fa dalla collega blogger Cristina Rossi de "Il Manoscritto del Cavaliere". Come già ebbi modo di dire, si tratta di un progetto molto più vasto che ha come comune denominatore i "vasi comunicanti", ovvero quei luoghi (o non-luoghi) dove un unico elemento fa da filo conduttore fra altri completamente diversi. In questo caso si tratta di individuare prima di tutto un paesaggio artificiale (reale o immaginario che sia) e quindi associare ad esso un libro, (romanzo, racconto, prosa, poesia) in cui l'autore abbia sfruttato al meglio le caratteristiche di tale paesaggio, vuoi per averne esaltato l'atmosfera, vuoi per averci costretto indissolubilmente i suoi personaggi. Anche in questo caso il secondo passo è quello di identificare un'opera d'arte (un dipinto, ma non necessariamente) che, sulla base del gusto di chi scrive, possa rappresentare quel paesaggio.
Io ho scelto di prendere in esame, in rigoroso ordine di apparizione: la frontiera, la bottega, la biblioteca, il ponte e... l'ippodromo. Per quanto riguarda i dipinti, come al solito mi sono affidato più alle sensazioni che questi mi sanno evocare che alla loro fedeltà agli ambienti e alle descrizioni dei romanzi. Mi auguro comunque di non essere andato troppo fuori tema...
E la foto di Dennis Stock che ho inserito qui sopra? Tecnicamente non c'entra nulla: mi piaceva solo l'idea di un singolo scatto che richiamasse alla mente tutti e cinque i paesaggi artificiali da me utilizzati (provate a indovinare in che modo).

domenica 27 novembre 2016

Der Umschlag, Genesis

Non ho mai ben capito cosa dovrebbe significare il termine “kafkiano”, che sento spesso usare dai miei conoscenti riferendosi a situazioni bizzarre. Una vaga idea più o meno ce l'ho, avendo letto alcune opere dell’autore in questione, ma sull’utilizzo dell’aggettivo mantengo ancora qualche riserva. Secondo Wikipedia, l'aggettivo "indica una situazione paradossale, e in genere angosciante, che viene accettata come status quo, implicando l'impossibilità di qualunque reazione tanto sul piano pratico quanto su quello psicologico".
La stessa voce del celebre dizionario online suggerisce però che uno degli esempi più emblematici di situazione "kafkiana" sia quella che emerge dalle pagine del romanzo "Il processo" di Franz Kafka nelle pagine in cui viene a inserirsi prepotentemente il tema della burocrazia, nella fattispecie quella giudiziaria. Ecco, la chiave di volta forse è proprio nella cavillosità, nel formalismo, nell'osservanza esagerata dei regolamenti estesa al punto da tendere paradossale ogni tentativo di far prevalere la logica. Ma perché vi sto parlando di tutto questo? Credo sia necessaria una spiegazione, per cui ricomincio daccapo.

lunedì 21 novembre 2016

La cerimonia

Ci sono strane cose che sopravvivono ai margini della nostra stessa esistenza, che ci seguono al limite della nostra percezione, ci osservano dal buio che incombe oltre il calare della notte, solo un passo al di là del confortante calore delle luci. Neri portenti, strani culti, e cose anche peggiori attendono nell’ombra. I Figli dell'Antica Sanguisuga sono fra noi da tempo immemorabile, dall’alba dell’umanità ci accompagnano... Donald Miller, geologo e accademico oggi ormai ottuagenario, da una vita cammina sul ciglio d'un abisso, tra i vuoti di memoria che gli oscurano la mente e certi improvvisi lampi d'inquietanti ricordi, che a tratti lo risvegliano a una realtà sinistra celata appena sotto il tenue velo d'amnesia, la sottile cortina della quotidianità. Sparsi frammenti, ora destinati a convergere verso una rivelazione sconvolgente, ciò che l'Oscurità, l'abisso oltre le stelle, ha infine per noi in serbo. 

Era da un bel po' che tenevo d'occhio questo volume, uscito ormai, se la memoria non mi inganna, negli ultimi giorni del 2015. In tanti mesi credo di averlo messo e tolto dal carrello di quasi tutte le piattaforme di e-commerce almeno una ventina di volte. Non tanto perché ero indeciso se mi potesse interessare o meno (su quello non c'è mai stato alcun dubbio), quanto perché il mio dannato senso di colpa mi imponeva di dare un freno alla mia attività di accumulo libresco compulsivo che, negli ultimi anni, si è pure notevolmente aggravato. Alla fine il diavoletto che mi accompagna per librerie ha avuto la meglio e "La cerimonia" (The Croning, 2012) di Laird Barron è entrato a far parte della mia famiglia, in qualità di auto-regalo di compleanno, lo scorso luglio (assieme ad altre cosettine di cui magari parlerò più avanti). Ho però atteso il mese di settembre per poterlo leggere, sfruttando così al meglio un paio di trasferte di lavoro che mi hanno inchiodato su un treno per diverse ore. Vi state chiedendo se "La cerimonia" mi è servita ad alleviare la sindrome da trasferta? Eccome, se è servita!

martedì 15 novembre 2016

Orizzonti del reale (Pt.9)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

L'espressione religiosa non è qualcosa di immutabile. Di questo, almeno, siamo certi, perché osservando le diverse realtà etniche e sociali del mondo moderno ci accorgiamo che da una matrice comune possono nascere una gran quantità di dogmi e di confessioni diverse: nuove sette, ognuna con il proprio motivo dominante che rappresenta al meglio le esigenze e le idee, se non della sua totalità, quantomeno dei suoi capi religiosi. 
Anche nel passato remoto dovette avvenire qualcosa di simile, e molte volte, ma il mutamento più importante coincise con l'avanzare del progresso, quando l'uomo gradualmente acquisì la capacità di intervenire, fino a un certo punto, nei processi della natura, principalmente con l'invenzione dell'agricoltura e degli utensili in pietra più avanzati avvenuta nel Neolitico. Esso sentì che lo scopo della pratica religiosa non poteva più essere semplicemente cooperare con la natura per avere le condizioni meteorologiche idonee alla crescita delle messi. Centrali, allora, divennero l'acquisizione della saggezza e la precognizione perché, naturalmente, l’uomo aspirava a diventare egli stesso una sorta di divinità. 
Gli antichi sapevano ciò che la medicina moderna, specie qui in Occidente, sembra aver dimenticato: che l'uomo è un tutt'uno inscindibile di corpo e spirito, e non è possibile guarire l'uno dimenticandosi dell'altro. Nell'antichità la medicina, la negromanzia e l'astrologia non potevano essere disgiunte. Questo avveniva non solo perché, banalmente, con le piante ci si curava, ma anche perché le piante hanno le radici nella terra e si credeva quindi che potessero attingere alla sua saggezza e trasmetterla a coloro che erano degni di riceverla e sapevano come interpretarla. Il ventre della terra era anche il luogo a cui si ritornava da morti: l'Aldilà, un luogo di creazione ove la vita veniva concepita e dopo la morte ricreata, scevro di negatività e di quell'immobilità annichilente, oppure punitiva, la cui idea si deve unicamente al tardo Cristianesimo. 

mercoledì 9 novembre 2016

L'anulare

Ci sono dei libri che per qualche motivo riescono a calamitare la mia attenzione in maniera totale, tanto che faccio fatica a posarli finché non li ho finiti. Prendiamo ad esempio “L’anulare” di Yoko Ogawa: la cosa straordinaria è come un racconto di un centinaio di pagine che si regge su poche e in parte opposte tematiche (la libertà e il possesso, ad esempio) riesca a descrivere il cuore del Giappone e dei giapponesi meglio di tanti saggi.
Nel caso della Ogawa (e di questo libro in particolare) non me la sento proprio di parlare di tematiche universali, se non in misura molto ridotta, e credo che il perché vi sarà evidente se leggerete fino alla fine.
La storia, narrata in prima persona, è quella di una giovanissima ragazza che si trasferisce da un piccolo villaggio di campagna vicino al mare nella grande città. Qui finisce per accettare un lavoro di segreteria offertole da Deshimaru, un tecnico che è anche il proprietario e amministratore di un laboratorio. Dopo un po’ i due intrecciano una relazione, o meglio cominciano ad andare a letto assieme, e il loro rapporto diviene sempre più esclusivo e opprimente. Un classico? Non proprio, perché con queste poche parole ho più o meno illustrato gli unici aspetti convenzionali, normali, del libro. Il resto è totalmente inaspettato. Non che avvenga qualcosa di realmente pericoloso, almeno all’apparenza, eppure il peso di tutto ciò che è straziante, penoso, doloroso o semplicemente imbarazzante, che aleggia come una cappa sul laboratorio, finisce per contagiare la psiche dell’ignaro lettore, e se non fosse che lo stile è assolutamente sobrio e pacato potrei quasi dire che si tratta di un thriller mancato; ma forse non aspirava nemmeno a esserlo, e se lo fosse stato non avrebbe comunque potuto essere più intrigante.

giovedì 3 novembre 2016

Storie, visioni e vasi comunicanti

Sebastião Salgado - The Brooks Range, 2009
from the series Genesis - Gelatin silver print
Ogni personaggio che si rispetti vive in un mondo creato dal suo autore, che naturalmente prende spunto dalla realtà.
Con queste parole esordiva circa un mese fa la collega blogger Cristina Rossi de "Il manoscritto del cavaliere" nel suo articolo "I quadri, i romanzi e... i paesaggi naturali".
Si tratta, il suo, di un progetto molto più vasto che ha la sua ragione di esistere nell'immortale concetto dei "vasi comunicanti", ovvero quei luoghi (o non-luoghi) dove un unico elemento fa da filo conduttore fra altri completamente diversi. 
Nell'ultimo esperimento, ultimo in ordine di tempo, si tratta di individuare prima di tutto un paesaggio naturale (reale o immaginario che sia, purché non artificiale) e quindi associare ad esso un libro, (romanzo, racconto, prosa, poesia) nel quale l'autore abbia saputo al meglio sfruttare le caratteristiche di tale paesaggio, vuoi per averne esaltato l''atmosfera, vuoi per averci costretto indissolubilmente i suoi personaggi. Ma non è finita qui: il secondo passo è quello di identificare un'opera d'arte (un dipinto, ma non necessariamente) che, sulla base del gusto di chi scrive, possa virtualmente unire i due concetti sopra esposti. Il gioco ha intrigato altre persone e, come spesso accade con le iniziative di Cristina, è diventato una sorta di meme. Dopo una piccola esitazione e con i miei tempi, ho deciso di provare a cimentarmici anch'io. Ho quindi scelto di prendere in esame, in rigoroso ordine di apparizione, i seguenti paesaggi naturali: il deserto, la montagna, il ghiacciaio, il fiume e la collina.
E la foto di Salgado che ho inserito qui sopra? Tecnicamente non c'entra nulla: mi piaceva solo l'idea di un singolo scatto che potesse contenere tutti e cinque i paesaggi (uno più o uno meno).

venerdì 28 ottobre 2016

Il nido

Per il secondo anno di fila eccomi qui a parlare del festival del cinema di Locarno, sebbene la mia proverbiale reattività ha finito per fare uscire questo articolo con due mesi e mezzo di ritardo.
Sulla manifestazione in sé non ho nulla da dire, perché purtroppo ho visto ben poco: come l’anno scorso, potendomi fermare solo una notte la mia è stata una vera e propria toccata e fuga. E anche se da quanto ho letto è stata un’edizione sotto tono, vi confesso che un piccolo rimpianto ce l’ho, soprattutto perché dei due film che ho visto il primo è francamente da dimenticare. Non è però mia abitudine fare recensioni negative, quindi passerò direttamente a parlare del secondo, vale a dire “Il Nido” di Klaudia Reynicke, una coproduzione fra Svizzera e Italia, che è il vero oggetto di questo post.
Il film (girato in italiano) racconta la storia di Cora, neodiplomata che ritorna al paese natio (il borgo fittizio di Bucco, in Svizzera) per una sorta di “anno sabbatico” durante il quale darà una mano nell’attività di famiglia. Grazie all’incontro con Saverio, ritornato in paese dopo molti anni per vendere il rustico di famiglia e, forse, per cercare una tardiva vendetta, scoprirà un segreto che riguarda un crimine avvenuto in paese e rimasto occultato per ben quarant’anni. Questo film per me era francamente un punto interrogativo. Sulla carta la trama sembrava interessante, ma… un film coprodotto dalla Rai? Ce n’era abbastanza da farmi storcere il naso (lo so, sono prevenuto), ma per fortuna tutti i miei timori sono stati fugati a pochi minuti dall’inizio per merito di una storia interessante, di attori perfettamente in parte (alcuni, delle comparse, sono i veri abitanti del paese in cui è avvenuta la maggior parte delle riprese), di scenari allo stesso tempo meravigliosi e sinistri.

domenica 23 ottobre 2016

Quel che ho capito di Stranimondi

Jacques prese la fiasca, e la consultò a lungo. Il suo padrone tirò fuori l’orologio e la tabacchiera, vide che ora era, prese la sua presa di tabacco, e Jacques disse: — Ora mi sembra di vedere il destino meno nero. Ditemi dove ero rimasto. (Jacques il fatalista e il suo padrone, Denis Diderot, 1773) 

Ho passato gran parte del mio tempo libero, nel corso dell'ultima settimana, a curiosare su blog e social i vari reportage su Stranimondi, la manifestazione che non serve che vi spieghi che cos'è. Ho visto foto, ho letto commenti, ho assistito qua e là a quelle piccole polemiche che sono ormai normalmente inevitabili, in questo come in qualsiasi altro piccolo avvenimento quotidiano. La maggior parte delle cose che ho visto e che ho letto mi sono sembrate espressione di grande attenzione e grande lucidità su un fenomeno letterario, quello di cui si fa portavoce Stranimondi, decisamente inconsueto, se paragonato alle tendenze mainstream da cui siamo circondati. 
In particolare porto come esempio le accurate analisi di Massimo Citi e di Andrea Viscusi che, con qualche piccola riserva, posso tranquillamente dire di condividere, ma faccio anche riferimento a interventi molto più "di pancia" come quello di Davide Mana o dell'inossidabile Nick Parisi
Ho deciso quindi di scrivere due righe anch'io sull'argomento, senza in realtà la presunzione di aver qualcosa di nuovo o di interessante da dire.

mercoledì 19 ottobre 2016

Tutto inizia da O

Tutto è iniziato in realtà all'inizio di marzo, almeno per quanto mi riguarda. Alcuni di voi forse si ricorderanno di quel post abbastanza anomalo per i miei standard con il quale annunciavo l'apertura delle iscrizioni per il XII Trofeo RiLL per il miglior racconto fantastico organizzato dall’associazione RiLL Riflessi di Luce Lunare
Oggi, praticamente sette mesi dopo tale segnalazione, e praticamente a pochi giorni dalla partenza del Lucca Comics, torno sull'argomento per chiudere virtualmente quel cerchio che avevo iniziato. 
Quella segnalazione, una delle poche se non credo l'unica apparsa in tanti anni di blogging, è stata una simpatica eccezione alla regola non scritta che vorrebbe che da queste parti non si parlasse di nulla a scatola chiusa. Tecnicamente le cose non andarono esattamente in quel modo: scorrendo infatti la lista dei vincitori delle edizioni precedenti, notai la presenza di nomi piuttosto interessanti nel panorama del fantastico italiano e, conoscendone tra essi diversi, decisi che valeva senz'altro la pena promuover un'iniziativa che poteva in qualche modo produrre dei risultati interessanti. È andata davvero così? Su questo punto potremo tornare solo in un secondo tempo. Oggi intanto possiamo iniziare a fare i primi nomi. 
Prima di tutto però cominciamo con lo svelare la copertina dell'antologia che ne è risultata, la cui grafica è firmata da Valeria De Caterini e il cui titolo prende il nome dal racconto vincitore del trofeo, Maurizio Ferrero. Una vittoria sicuramente non facile visto che quest'anno si sono messi in gioco qualcosa come quattrocento candidati.

domenica 16 ottobre 2016

...e Lillie sparì nella notte (Pt.3)

Image Credits: NY Nat'l Police Gazette 1887
LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

I motivi che portarono all’arresto di Dixon Cowie non furono però le voci che avevano ormai preso a circolare con sempre maggior decisione. Non fu nemmeno il particolare del suo repentino, per alcuni provvidenziale, trasferimento in un'altra città, comportamento che in molti ritennero equivalere a una fuga. Ciò che convinse gli inquirenti fu invece una clamorosa quanto inaspettata confessione.
Lo stesso giorno, comunque, la polizia procedette a un secondo arresto. Questa volta le manette scattarono ai polsi di Thomas B. McQuaid, studente di medicina all’università di New York, ex cittadino di Webster e rampollo di una delle famiglie più potenti della contea.
L’accusa era ovviamente una delle più infamanti: omicidio di primo grado nei confronti della diciannovenne Lillie Hoyle, con la quale McQuaid avrebbe avuto una relazione l’anno precedente.
Come erano giunti i detective alla clamorosa svolta? Alice Hoyle, che per tutti era la povera sorella inconsolabile, decisa a liberarsi dell’insopportabile peso del rimorso si era recata alla stazione di polizia con una nuova, incredibile versione dei fatti. Dimenticate quindi tutto ciò che vi ho raccontato finora: la verità, secondo la nuova versione dettata da Alice Hoyle, era molto diversa. Una verità secondo la quale Lillie Hoyle, la sera dei tragici fatti, non era affatto uscita dalla sua stanza per recarsi in bagno e poi sparire per sempre. Il 1 settembre 1887 è la data in cui un complotto pianificato da tempo ebbe il suo apice e quindi nulla, in base a quanto raccontò Alice Hoyle, accadde per caso (a parte forse il tragico epilogo).

giovedì 13 ottobre 2016

...e Lillie sparì nella notte (Pt.2)

Image Credits: New York National Police Gazette 1887
LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Col particolare che la giovane Lillie Hoyle potesse aver nascosto per oltre sette mesi una gravidanza, la stampa ovviamente andò a nozze.
Vennero immediatamente battute le piste più scomode, quelle che invadevano nel profondo l’intimità della ragazza. Nonostante tutti gli scossoni, la reputazione di Lillie sembrava tuttavia inossidabile: come molti ragazzi della sua età, la diciannovenne aveva molti amici e amiche, ma l’unica persona alla quale era davvero intimamente legata era la sorella Alice, al fianco della quale, nel suo tempo libero, non mancava mai di apparire. 
Evidentemente l’opinione pubblica gradiva molto di più razzolare nel torbido della vita della giovane vittima, e fu così che il dito indice finì inevitabilmente per essere sollevato contro Alice Hoyle, rea non solo di negare di essere stata perfettamente a conoscenza della gravidanza della sorella, ma anche di sapere molto più di quanto non avesse ammesso sino a quel momento. È davvero possibile che Alice Hoyle potesse essere a conoscenza di particolari riguardanti la vita sentimentale di Lillie e tacerli, pur sapendo che l’identità di un eventuale fidanzato segreto, a lei sola confidata, avrebbe potuto rapidamente instradare gli investigatori sulle tracce del killer? Oppure dietro il suo silenzio si celava qualcosa di più, magari qualcosa di mostruoso, difficile da accettare e da affrontare? Oppure ancora Alice intendeva, con il suo continuo negare, proteggere se stessa o qualcuno a lei caro?

lunedì 10 ottobre 2016

...e Lillie sparì nella notte (Pt.1)

Image Credits: New York National Police Gazette 1887
Avrebbe potuto rimanere avvolta nel tepore delle sue coperte e trattenere la pipì fino alla mattina, ma Lillie Hoyle, in quella tragica notte del 1 settembre 1887, decise di affrontare i primi pungenti freddi di fine estate per recarsi al bagno che, come era tipico nelle abitazioni dell’epoca, era situato all’esterno dell’edificio principale. La sorella Alice decise di non attenderla e, lasciandosi vincere dalla stanchezza accumulata nel corso della giornata precedente, si voltò nel letto e cadde rapidamente in un sonno profondo. Non l’avrebbe mai più rivista. La mattina seguente Alice si alzò e si preparò in fretta per la giornata che l’attendeva senza fare granché caso all’assenza della sorella. Valutando frettolosamente che Lillie si fosse alzata prima di lei, Alice uscì di casa chiudendosi la porta alle spalle. Solo in tarda serata, una volta rientrata, Alice ebbe chiara l’inaccettabile verità: Lillie non aveva affatto dormito nel suo letto e quelli che erano i suoi effetti personali, l’orologio e i pochi gioielli, erano ancora sul comodino là dove li aveva posati la sera prima. Cosa successe a Lillie Hoyle in quella sera di inizio settembre a pochi passi dalla sua abitazione di Webster, nel Massachusetts? Alice Hoyle attese la risposta per tutta la vita, ma inutilmente. Oggi, quasi 130 anni dopo, i fatti di quella notte restano ancora avvolti nel mistero. 

martedì 4 ottobre 2016

Above your head lays a...

Che strana sensazione è quella di riprendere a ottobre il filo del discorso che avevo lasciato interrotto prima dell'estate. Il lungo speciale appena terminato, che ha interamente occupato il mese di settembre, è stato in un certo senso un prolungamento della lieta stagione di "fancazzismo blogghesco" (visto che tutti i contenuti erano stati preparati con buon anticipo) e temo che non sarà così facile riprendere gli abituali ritmi di programmazione. Dovrò trovare comunque il modo di uscire dal dolce torpore in cui mi sono immerso, anche se non so ancora in che modo. L'arrivo dell'autunno non mi sarà certo d'aiuto, considerato che noi plantigradi amiamo il letargo e che la prospettiva del grande freddo mi azzera letteralmente la riserva di energie. Il post che mi accingo a scrivere oggi, che lascia forse un po' trasparire una sensazione di scazzo, mi serve per dare una prima fiammata alla caldaia, sperando che poi tenga autonomamente per tutta la durata dell'inverno.
Qualcosa è cambiato nel blog, come avrete senz'altro notato: è cambiata la grafica là in cima, il cosiddetto header è ora nuovo di zecca e, credeteci o no, ci ho lavorato sopra per ore nelle scorse settimane. Lo avrei fatto comunque, visto che erano almeno tre anni che non rinfrescavo le pareti del blog. Il motivo che mi ha spinto a farlo proprio adesso è stato l'aver notato che il vecchio header era stato saccheggiato da ignoti e utilizzato altrove (ve ne avevo già accennato a fine agosto, come certo ricorderete). Non potendo far nulla se non masticare amaro, ho deciso di recidere rapidamente e definitivamente ogni collegamento con la vecchia grafica e voltare pagina.

venerdì 30 settembre 2016

Off the well

Ed eccoci così giunti alla conclusione. Salutiamo Sadako, salutiamo lo Speciale Ghost in the Well e chiudiamo definitivamente questa faticosissima parentesi. 
Non ci sono parole per spiegare lo stress mentale al quale questo progetto ha sottoposto i suoi autori. Il plurale non è casuale, visto che non ce l’avrei mai fatta senza il continuo supporto di Simona che a un certo punto, quando le cose si sono messe al peggio, ha preso in mano la situazione e si è messa a produrre quei contenuti che al solo pensiero il sottoscritto provava un inquietante senso di repulsione. Ancora oggi, che dovrei essere più o meno fuori dal tunnel, quando chiudo gli occhi appare davanti a me il profilo di Sadako che mi guarda e che mi tormenta. È forse questa la vera maledizione di Ring? Quella di tormentare un piccolo blogger che non ha fatto nulla di male se non parlarne fino all’esaurimento? Ad ogni modo, oggi è finita. Oggi è il momento di tirare le somme di questo lungo lavoro. 
Com’è andata? A me pare sufficientemente bene. Avrebbe potuto andare meglio, questo sì, e vi assicuro che la mia non è falsa modestia. Nella mia mente Ghost in the Well poteva davvero elevarsi di parecchio rispetto alla media degli “speciali Ring” che hanno invaso la rete negli ultimi vent’anni. Così non è stato per vari motivi, non ultima la necessità di portare a termine il lavoro in un tempo accettabile, particolare questo che mi ha convinto a tapparmi il naso su certi passaggi a mio parere insoddisfacenti. Il mio comunque è un giudizio di parte, espresso tra l’altro a caldo. Non sono comunque io a doverlo esprimere: da un lato sarà il tempo a dare una risposta, dall’altro sarà il giudizio di chi è passato (o passerà) di qui a contare davvero. Una cosa è certa: per un bel po’ di tempo non vorrò più sentir parlare di Ring. Ho bisogno di disintossicarmi.

mercoledì 28 settembre 2016

Una montagna di carta

Si approssima alla conclusione il lunghissimo speciale che Obsidian Mirror ha dedicato a una delle icone horror più celebrate degli ultimi vent’anni. Ghost in the well, che ci sta tenendo compagnia da tempo immemorabile, ha messo in fila uno dietro l’altro ben ventitre articoli (il ventiquattresimo, quello conclusivo, uscirà come di consueto l’ultimo giorno del mese). Un lavoro mostruoso le cui dimensioni non mi erano ancora ben chiare quando, sul finire dello scorso inverno, ebbi la malaugurata idea di infilarmi in questo ginepraio. Per realizzare ventitre articoli io e la mia ragazza ci siamo guardati (spesso anche più di una volta) undici film, tra cui un vecchio classico anni Cinquanta, un remake coreano e due remake americani, due serie TV per un totale di venticinque episodi (visti e rivisti una seconda volta, perché non si sa mai possa esserci sfuggito qualcosa), ci siamo letti i libri di Kōji Suzuki, i manga di Hiroshi Takahashi, ci siamo bruciati gli occhi su internet alla ricerca dei tasselli più invisibili, ci siamo dannati l’anima a ragionare sui pro e contro, su ciò che andava assolutamente detto e su ciò che poteva anche andare taciuto, abbiamo sottratto ore al sonno per poter arrivare in tempo agli appuntamenti che ci eravamo prefissati. Ma, alla fine, siamo riusciti a concretizzare davvero quello che avevamo in mente? Abbiamo detto tutto quello che c’era da dire? Non proprio: ci vorrebbe come minimo un terzo mese di speciale per completare l’opera ma, ve lo dirò chiaramente, arrivati a questo punto non ne possiamo davvero più di Sadako. Cosa avremmo potuto dire ancora, vi starete chiedendo?

lunedì 26 settembre 2016

Sadako 3D

Ebbene sì, siamo ormai alla frutta. In che senso? Beh, innanzitutto nel senso che questo lungo speciale volge ormai al termine ma, ahimè, anche nel senso che le ultime cartucce che ci rimangono da sparare sono le più terribili. Pensavate di aver già toccato il fondo l’ultima volta? Pensavate che certe espressioni di cinema-spazzatura potessero nascere, crescere e proliferare solamente nel Belpaese o giù di lì? Niente di più sbagliato perché, e questo post di oggi ne è la prova, il Giappone ha molto da insegnare a noi occidentali in termini di pattume cinematografico.
Ciò ovviamente nulla toglie alla grande tradizione artistica di cui, a ragione, l’impero del Sol Levante può vantarsi, ma di fronte a certe boiate anche la logica crolla a livello subatomico tra fantasmi e ombre (cit.).
Abbiamo visto sinora una dozzina di film, tra sequel, prequel, re-boot, remake di sequel e sequel di remake, abbiamo visto serie tivù, versioni coreane e americane e chi più ne ha più ne metta. Abbiamo anche sperato, nel nostro più profondo intimo, che il secondo capitolo a stelle e strisce rappresentasse la definitiva lapide di Sadako Yamamura, ma la storia ha voluto diversamente e così, quando ormai eravamo a un passo dal poter chiudere in grande stile questo speciale, ecco capitarci fra capo e collo “Sadako 3D”!
Uscito nelle sale solo nel 2012 a seguito di una campagna di marketing senza precedenti, “Sadako 3D” si è inserito in un franchising consolidato, se n’è appropriato e lo ha fatto letteralmente a pezzi partendo dalle fondamenta. Quasi vent’anni dopo il primo Ring, e questo possiamo concederglielo, poteva apparire leggermente datata la scelta della VHS come mezzo di trasmissione di un virus, ma costringere Sadako a irrompere in questo mondo attraverso lo schermo di un iPhone, permettetemelo, è davvero troppo.

venerdì 23 settembre 2016

Clonazione

La seconda serie TV suggerisce velatamente un parallelismo fra virus biologico (il veleno, vīrus, dei latini) e virus informatico, perché Sadako finisce in una rete di computer dalla quale, tramite internet, le sarebbe teoricamente possibile raggiungere e infettare un numero spropositato di persone (la minaccia di Kenichi Azuma di sterminare l’umanità in questo modo occupa proprio le puntate finali della serie).
In effetti anche il virus informatico, introdotto in un organismo, in questo caso una macchina, è in grado di infettarlo e di replicarsi al suo interno.
Nella peggiore delle circostanze compromette il sistema operativo del pc e spesso non ci si accorge della sua presenza finché il danno non è esteso.
Ricordate quando la volta scorsa abbiamo accennato a come le cellule dell'organismo ospite sembrino "possedute" dal virus? Come un virus, anche Sadako è allo stesso tempo viva e morta, o meglio si trova in uno stato intermedio fra la vita e la morte. Ma Sadako può anche essere vista come una sorta di divinità, o forse un demone, in grado di prendere possesso di un altro organismo. Lo stesso può dirsi della videocassetta, e perfino dell’altra “volontà” che ne ha permesso la creazione (il virus del vaiolo) e del risultato di quel miscuglio di geni (il virus Ring) che si trova nella cassetta stessa. È per questo che nel reportage “Ring” scritto da Asakawa nel primo romanzo di Suzuki la risoluzione dell’enigma (che, come dovrebbe essere ormai chiaro, non consiste affatto nella sepoltura dei resti di Sadako, ma nella duplicazione della cassetta), viene definita “esorcismo”? Attenzione, bisogna sempre tenere a mente che, qualsiasi cornice scientifica Kōji Suzuki possa aver dato alla sua storia, l’elemento soprannaturale è altrettanto importante, a parte il fatto che è proprio su quello che le varie trasposizioni (cinematografiche e non) dell’opera hanno puntato per garantire e reiterare l’effetto horror.

mercoledì 21 settembre 2016

Mutazione

Più che un approfondimento, l'articolo di oggi vuol essere il modo di mettere nero su bianco alcune riflessioni che riguardano i temi scientifici trattati nella storia di Ring. Ma potrebbe esserci anche dell’altro. Mettere i miei pensieri in ordine non sarà facile, ma ci proverò. 
Uno dei punti deboli della saga sembrerebbe essere l'innesto di elementi scientifici all’avanguardia in un contesto che ai nostri occhi appare, ahimè, datato, il che se vogliamo è un po' il rischio che corrono, con il passare del tempo, tutte le opere che sfiorano questi temi, per via del confronto con il nuovo che avanza. 
In realtà, questa percezione è legata prevalentemente agli adattamenti televisivi dei romanzi di Kōji Suzuki, le serie “Saishūshō” e “Rasen” delle quali abbiamo parlato pochi giorni fa. Benché siano state realizzate entrambe alle porte del Duemila, l’impressione è che siano molto più datate, e anche se l’azione non viene mai a mancare, le due serie ricordano irrimediabilmente delle soap opera, un po’ per la sceneggiatura e un po’ per il taglio delle inquadrature e l’uso delle musiche; l’aspetto dei due prodotti appare inoltre amatoriale anche se, bisogna ammetterlo, molto può essere dovuto alla bassissima risoluzione (ad occhio un 480p@25fps) con la quale sono state caricate su YouTube. Non è quella, tuttavia, l’impressione che si ricava dalla lettura dei romanzi. Perfino il primo, che a suo tempo ho definito “senza infamia e senza lode”, e che comunque a scanso di equivoci è ben scritto e piacevole da leggere, può essere rivalutato alla luce del suo avvincente sequel, che poi è anche il capitolo che segna davvero l’incursione della storia in campo scientifico.

domenica 18 settembre 2016

American Rings

Ecco che è giunto il momento di affrontare una delle parti se vogliamo più spinose dell’intero speciale. E quando dico “spinose” intendo affermare che non sentivo davvero un gran bisogno di scriverlo, questo post. Se sono qui a farlo è solo perché uno speciale così lungo e approfondito non poteva dirsi completo se non citando, seppure brevemente, tutto ciò che è successo immediatamente dopo il travolgente successo del Ring di Hideo Nakata.
Immediatamente? Beh, non proprio, visto che ci vollero ben quattro anni affinché le case di produzione hollywoodiane si accorgessero del fenomeno Ring e se ne appropriassero.
Naturalmente, come accade sovente in questi casi, per Ring fu la consacrazione definitiva e il successo divenne planetario. Tra l’altro, è bene sottolineare che l’horror occidentale aveva trovato con Ring un nuovo canale dal quale attingere e con il quale potersi lasciare finalmente alle spalle i vecchi cliché del genere, quelli che da anni ormai avevano annoiato a morte anche i più irriducibili appassionati. Diciamocelo chiaramente: per quanto apprezzabili, se non in alcuni casi addirittura pregevoli, i numerosi tentativi di fare horror negli anni di fine millennio andavano poco più in là della riproposizione di situazioni viste e riviste un milione di volte, sfociando spesso in una sorta di horror-pop imbarazzante. Mi dispiacerebbe dover sminuire in poche righe il duro lavoro di centinaia di attori, registi e produttori, ma sarete certamente d’accordo con me quando dico che dodici film della serie “Venerdì 13”, dieci “Halloween”, nove “Hellraiser”, nove “Nightmare” e otto “Amityville” sono stati molto più che abbastanza.

giovedì 15 settembre 2016

Gli spiriti dell'acqua

Umi-bōzu (海坊主)
La centralità dell'acqua nella mitologia ha a che fare tanto con il suo potere di creazione che di distruzione, a partire dal mito biblico della genesi, in cui lo spirito divino aleggia sulle acque della creazione, fino a quello del diluvio universale volto a punire un'umanità infedele a Dio. Due racconti che difatti ricorrono, con poche variazioni, fra moltissimi popoli. In particolare, la concezione di una distesa di acque primordiali è praticamente universale: per molte culture, anche geograficamente lontanissime, se non agli antipodi, su queste acque galleggiava un uovo da cui sarebbe nato il mondo, il più famoso dei quali è senz'altro il Brahmanda della civiltà vedica. Spesso, come fra i cinesi, le acque primordiali simboleggiano il Caos prima della creazione (Wu-chi). Molte popolazioni, inoltre, veneravano divinità dell'acqua e della pioggia. L'acqua è anche elemento rituale, come nel sacramento del battesimo che lava via i peccati, o nelle abluzioni richieste agli ebrei e ai musulmani prima della preghiera. Abluzioni che, pur diverse nella forma, sono pratica comune anche in India e in generale nei paesi del Sudest asiatico. Vi è poi una ricorrente analogia fra acqua e saggezza, ad esempio nel Taoismo la saggezza viene concepita come libera e senza costrizioni come l'acqua che scorre seguendo la pendenza naturale del terreno, mentre per i cristiani l'acqua della saggezza, o Spirito Santo, dimora nel cuore del saggio. Nel Medioevo si consolidò la concezione dell'acqua come vita spirituale offerta da Dio e di cui Gesù è la sorgente. Il fatto che, ancora adesso, nelle più famose mete di pellegrinaggio vi siano delle sorgenti e che le loro acque vengano considerate sante e gli vengano attribuiti poteri curativi e spesso miracolosi è un retaggio degli antichi culti che si concentravano, appunto, attorno alle sorgenti.

martedì 13 settembre 2016

Sadako, l'acqua e l'asceta

En no Gyōja
Dopo aver accennato in precedenza al significato archetipico e mitologico del pozzo, è ora di spendere qualche parola anche su un altro elemento ricollegabile a Sadako Yamamura: l’acqua. Il legame di Sadako con l’acqua si deve non tanto a quel pozzo nel quale è stata gettata ed è rimasta così a lungo, ma alla natura stessa del personaggio. Sappiamo che l’acqua – che in senso lato è brodo primordiale, liquido amniotico, sangue, clorofilla – è principalmente la sorgente della vita, ma è anche un simbolo di rigenerazione e purificazione spinte fino al punto di arrecare la morte, perciò essa è allo stesso tempo creatrice e portatrice di distruzione, il che giustifica anche il suo legame, all'apparenza paradossale, con l'elemento opposto, il fuoco
Come simbolo cosmogonico, l'acqua presenta un'altra dualità: quella fra la sua natura maschile e quella femminile. L'acqua è infatti sia seme divino, “uranico”, che feconda la terra, sia elemento “lunare” (perché fertile e legato quindi al sangue mestruale), che nasce dalla terra e dall'alba e permette la fecondazione. L'acqua come elemento dalla natura ambivalente di vita e di morte è stato sfruttato in tutti i film della serie mentre, come abbiamo già visto, il dualismo fra maschile e femminile è appannaggio solo del capostipite, “Kanzenban” di Chisui Takigawa, che lo riprende pari pari dal romanzo di Kōji Suzuki: la Sadako letteraria, infatti, è ermafrodita. Pur essendo biologicamente un maschio, Sadako ha l’aspetto (e la psicologia) di una bella donna e suscita le attenzioni di molti uomini, uno dei quali, scoperta la sua vera natura e sentendosi umiliato da lei, dopo averne abusato arriva a ucciderla. Ma una Sadako ermafrodita e per di più con poteri ESP così letali non è un po' troppo? 

sabato 10 settembre 2016

Ring TV: Rasen

Lo stesso anno di “Ringu: Saishūshō”, il 1999, la Fuji Television propose una seconda serie TV (*) dedicata alla saga di Ring intitolata come l’opera a cui si ispirava: “Rasen” (Spiral), il secondo libro di Kōji Suzuki. Possiamo considerare questa serie un sequel della prima, anche se in realtà le loro storie hanno in comune soltanto l’ambientazione e la premessa, ovvero la maledizione di Sadako. Anzi, “Rasen” eredita da “Saishūshō” anche il personaggio di Mai Takano (sempre naturalmente con il volto di Akiko Yada), e in un ruolo forse anche più cruciale. Per il resto, il parziale cambio dei registi coinvolti nel progetto non apporta alcun sostanziale miglioramento tecnico: con quella patina un po’ rétro, i due prodotti sono visivamente molto simili, sebbene a mio parere nel secondo ci sia un uso migliore della colonna sonora (sempre onnipresente e spesso invasiva, ma almeno più azzeccata). 
La serie strizza più volte l’occhio al Ring di Nakata, soprattutto quando ripropone una sua versione della famosa scena di Sadako che sbuca all’improvviso dallo schermo del televisore. Anche se non si trattava certo di una novità, credo che la visione di quelle immagini debba essere stata piuttosto spaventosa per un pubblico televisivo come quello di “Rasen”. 
L’idea degli autori era probabilmente quella di dare un’impennata decisa ai momenti horror e in qualche caso (come nella terza puntata, ad esempio) è esattamente ciò che avviene, anche se nel complesso il tasso di terrore è altalenante. La serie tv “Rasen” fa comunque più paura del film omonimo, che dal quel punto di vista offre davvero il minimo sindacale.

giovedì 8 settembre 2016

Ring TV: Saishūshō

Finora abbiamo esplorato varie versioni cinematografiche di Ring: “Kanzenban” di Chisui Takigawa, il primo e il secondo capitolo di Hideo Nakata, il sequel apocrifo “Spiral” (Rasen) di Jōji Iida, il prequel “Ring 0: Birthday” di Norio Tsuruta e, infine, proprio all’apertura di questa seconda parte dello speciale, la versione coreana “The Ring Virus”. Come avrete notato mancano ancora all’appello i remake americani, ma non siate troppo precipitosi, c’è ancora un bel po’ di cose di cui parlare prima di arrivare a quelli. Occorre innanzitutto cercare di chiudere idealmente “l’anello asiatico”, che nel 1999 si arricchì di nuovi interessanti (quanto sconosciuti a noi occidentali) capitoli. Avete capito bene: ho proprio scritto 1999. In quello stesso anno, proprio mentre veniva alla luce “Ringu 2” di Nakata, l’emittente giapponese Fuji Television in coproduzione con la Kyodo Television proponeva al proprio pubblico la miniserie tv “Ringu: Saishūshō” (リング, 最終章, Ring The Final Chapter). “Saishūshō” è in linea teorica l’adattamento del primo romanzo Kōji Suzuki, “Ring”, ma nella pratica numerose linee narrative sono inventate di sana pianta: la durata globale prevista (una decina di ore complessive) richiedeva evidentemente diversi personaggi di contorno utilizzati da un lato per creare false piste e suspense, e dall’altro per aumentare l’effetto drammatico. Alla voce “Ringu: Saishūshō” di wikipedia si dice che quella che ho appena definito banalmente “serie tivù” è in effetti un dorama, parola che deriva dall’inglese “drama” e che è usata per indicare un certo genere di format televisivo giapponese. Non necessariamente si tratta di prodotti raffazzonati o di scarsa qualità. Anzi. Molti dorama sono basati su manga di successo e questo garantisce loro, se non altro, maggiore varietà di generi e trame di quanta non ve ne sia nelle fiction di casa nostra.

martedì 6 settembre 2016

Dance of darkness

Quando nel secondo articolo dello speciale di Ring ho introdotto la figura di Sadako, ho fatto quello che inevitabilmente fanno tutti, chi prima e chi dopo: ho posto l'accento sulle sue caratteristiche fisiche e sul suo incedere claudicante, sbilenco e bizzarro, al limite dell'umano. È giunto il momento di riflettere un momento sulle ragioni per cui tutto ciò appare così terrificante per lo spettatore, quasi oltre la soglia della sopportabilità. La risposta a tale quesito pare ovvia, ma non è detto che lo sia davvero.
Come tutti i fantasmi in cerca di vendetta, anche Sadako ha alle spalle una storia di terribile violenza culminata con la sua uccisione, una storia da cui non si può prescindere. Come tutti i fantasmi, Sadako si mostra alle sue vittime trasfigurata dalla morte, gli occhi spiritati, il viso pallido ed emaciato e i lunghi capelli spettinati, ondeggianti davanti al viso. Il vero colpo di genio di Hideo Nakata è però quello di donarle delle movenze molto particolari: Sadako si muove a scatti, ora lenta ora inaspettatamente veloce, come un maratoneta che risparmi le forze per il rush finale; gli arti assumono pose innaturali, le articolazioni scricchiolano. Nessuna persona nel pieno del vigore e della salute potrebbe mai muoversi a quel modo. Ognuno di quei movimenti è uno spasmo di dolore che ci parla di una lunga e solitaria agonia nelle buie profondità del pozzo.
La Sadako di Nakata, insomma, non comunica solo con il suo aspetto esteriore, ma utilizza il linguaggio del corpo per narrare la sua storia, per mostrarci che è in preda all'odio e al rancore, ma anche che soffre e ha sofferto. Solo il pubblico occidentale può aver pensato che questo fosse qualcosa di nuovo, di mai visto prima: la realtà, per il pubblico giapponese, è un po' diversa.

sabato 3 settembre 2016

Ghost in the well

Nel corso della prima parte di questo speciale ci siamo addentrati nella meandri della leggenda di Okiku, quell’affascinante personaggio del folklore giapponese al quale la saga di Ring deve in qualche modo la sua stessa esistenza. La vicenda di Okiku, uno dei fantasmi più celebri e celebrati del paese, si tramanda ormai da diversi secoli (almeno quattro, stando alle testimonianze giunte sino a noi), e nel corso del suo lungo cammino i suoi contorni si sono più volte alterati, come è normale che avvenga quando la sopravvivenza di una leggenda è affidata alla narrazione orale, lasciando spazio a un incredibile numero di variazioni sul tema.
Abbiamo già descritto alcune di queste versioni qualche mese fa e tutte hanno in comune il finale tragico, quello che vede la giovane serva Kiku gettata in un pozzo e lì abbandonata a una lenta agonia. L’assassino il più delle volte è identificato in un samurai ribelle, Aoyama Tessan o Asayama Tetsuzan, un uomo reso folle di desiderio a causa del suo amore non corrisposto. In altre, rare occasioni si è preferita una soluzione più romantica, lasciando al succitato samurai la più positiva parte del paladino della giustizia. Comunque vadano le cose, Okiku trova una delle morti più terribili che si possano immaginare e, com’è quasi superfluo sottolineare, lo spirito di Okiku, una volta abbandonate le spoglie mortali che lo tenevano prigioniero, si trasforma in un temibile onryō (怨霊), un inarrestabile “terminator” vendicativo che non farà fatica a trovare la strada di ritorno dal regno dei morti.

giovedì 1 settembre 2016

The Ring Virus

Sembra quasi ieri che questo lunghissimo speciale su Ring era stato messo in pausa. Sono passati invece quattro lunghi mesi, quattro mesi durante i quali siamo passati dal freddo al caldo più insopportabile a temperature di nuovo accettabili, almeno qui da me. Se fossimo in una serie televisiva, a questo punto ci starebbe bene un riassunto delle puntate precedenti, ma visto che qui non facciamo televisione, e visto che i post precedenti all’occorrenza sono facilmente recuperabili, direi che possiamo senz’altro saltare a pie’ pari tutti i convenevoli, con la sola raccomandazione, qualora ve ne fosse bisogno, di fare mente locale su tutto quanto è già stato detto e su quanto ci eravamo ripromessi di andare a dire. 
Nell’ultimo articolo della prima serie avevamo dedicato poche parole a quello che, per quello che ci era allora dato di sapere, rappresentava uno dei capitoli più anomali dell’intera saga. Il sequel “apocrifo” (il virgolettato è necessario) fu girato appena dopo la prima versione di Hideo Nakata e rappresentava (o avrebbe voluto rappresentare) la trasposizione cinematografica del secondo romanzo di Kōji Suzuki, vale a dire “Spiral”, che di “Ring” (ovvero del cerchio) rappresenta una delle possibili evoluzioni, non ultima quella geometrica. A differenza del sequel ufficiale, come avevamo visto, in Spiral la videocassetta cessava improvvisamente di essere essenziale nell’economia della vicenda. Era risultato ben presto evidente, senza doversi inoltrare nuovamente nella questione, che il titolo del film (ma anche, sottolineamolo, del romanzo) fosse un chiaro riferimento alla genetica e, nello specifico, alla struttura a doppia elica del DNA: se era questo lo sviluppo che aveva previsto lo scrittore giapponese, allora ci vediamo costretti a rivedere sotto una diversa luce tutto quanto è emerso nei lungometraggi che abbiamo già analizzato, vale a dire nel secondo Ring di Nakata e in Ring 0  (immaginato come un prequel) di Norio Tsuruta.

venerdì 26 agosto 2016

Si alzi il sipario

Facciamo che si ricomincia, che dite? Ma sì, ricominciamo. Tanto ormai agosto è agli sgoccioli e le vacanze, che poi vere vacanze per me non sono state, sono una cosa a cui si potrà ripensare tra qualche tempo. Non è per nulla facile tuttavia buttare giù questo ennesimo incipit, considerati tutti gli avvenimenti dolorosi che stanno insanguinando il nostro e gli altri paesi. A volte mi chiedo se abbia senso uscire con un post infarcito di sciocchezze come questo, uno di quelli dove si parla di tutto e di niente e che sono solito scrivere in occasioni come questa. Poi ci rifletto un attimo, e mi dico che in fondo mettersi a scrivere di sciocchezze ai miei livelli è sempre meglio che dirle o farle ad altri livelli.

martedì 26 luglio 2016

Yuggoth! Rehearsals (Pt.3)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Nella prima parte di questo articolo avevo accennato all’esistenza di alcuni punti in comune tra l’universo di Lovecraft e quello ideato da Ambrose Bierce e sviluppato in seguito da Robert W. Chambers. In realtà, a parte l’evidente rassomiglianza che i miti di Cthulhu hanno con le meno celebri leggende di Carcosa, nell’immensa produzione lovecraftiana esistono pochissimi riferimenti al lavoro dei suoi predecessori e, lo avrete già capito, tali riferimenti sono praticamente tutti inclusi in un singolo racconto, quel “The Whisperer in Darkness” con il quale vi sto tediando da ormai diverse settimane.
Nello specifico, sono due i passaggi che è necessario prendere in esame. Il primo, che ho ripreso praticamente tale e quale nel mio “Yuggoth!”, recita: “Lessi nomi e parole che avevo già sentito altrove e che sapevo riferirsi ai misteri più orridi: Yuggoth, il Grande Cthulhu, Tsathoggua, Yog-Sothoth, R'lyeh, Nyarlathotep, Azathoth, Hastur, Yan (Luogo), Leng (luogo), il lago di Hali, Bethmoora, il Segno Giallo, L'mur-Kathulos, Bran e il Magnum Innominandum; fui condotto in mondi estranei al nostro, di cui l'autore del Necronomicon aveva vagamente intuito l'esistenza; presi conoscenza degli abissi della vita originale, delle diverse correnti che ne derivano, e, finalmente, d'una mostruosa mescolanza che si era prodotta tra quelle correnti e un ulteriore abominio venuto dall'esterno”.

venerdì 22 luglio 2016

Yuggoth! Rehearsals (Pt.2)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Come molti di voi avranno senz’altro sentito dire, Howard Phillips Lovecraft, grande appassionato di astronomia oltre che scrittore talentuoso, aveva da sempre ipotizzato l’esistenza di un pianeta transnettuniano (chiamato Yuggoth, nel suo immaginario) e ne era così certo che non esitò a menzionare quella sua idea in una lettera inviata al prestigioso Scientific American già nel 1906, quando il nostro era appena sedicenne. 
Plutone, come sappiamo, non venne scoperto che nel maggio del 1930, un quarto di secolo dopo le riflessioni del giovane Lovecraft. Quest'ultimo, che in quei giorni aveva appena iniziato la stesura di The Whisperer in Darkness, decise di citare il nuovo pianeta nel testo, precisamente là dove dice: “Gli astronomi l'hanno battezzato Plutone senza rendersi conto quanto gli si adatti quel nome! Sono profondamente convinto che altro non è che Yuggoth, e rabbrividisco chiedendomi perché, in base a quale piano, i mostri ne abbiano consentito la scoperta.” E più avanti dove invece dice: “Ecco tutto. Sono fortunato di non aver perso la ragione. Talvolta pavento quanto ci porteranno gli anni futuri, soprattutto da quando è stato scoperto il nuovo pianeta, Plutone.” Howard Phillips Lovecraft immaginava Yuggoth/Plutone come “l'avamposto di una terrificante razza interstellare il cui luogo d'origine doveva trovarsi molto al di fuori della nostra galassia”.

lunedì 18 luglio 2016

Yuggoth! Rehearsals (Pt.1)

Prima o poi era inevitabile che quella lunga di serie di post sulla mitologia del Re in Giallo finisse per sconfinare nel magico universo lovecraftiano. Era scontato sin dall’inizio, non vi pare? D’altra parte non è affatto un mistero che i cosiddetti Miti di Cthulhu si siano ampiamente ispirati, almeno per quanto riguarda la parte pseudobiblica, al famigerato King in yellow citato dal contemporaneo, per Lovecraft, Robert W. Chambers. Restava solo da stabilire il momento in cui il solitario di Providence avrebbe potuto fare il suo ingresso in questa serie di post e, neanche a farlo apposta, con Yuggoth! quel momento è in un certo qual modo arrivato. 
Non avrei per inciso potuto scegliere diversamente, perché proprio scrivendo uno degli ultimi articoli, precisamente quello pubblicato a fine novembre dal titolo The Dream Leech, ispirato all’omonimo racconto di William Laughlin, avevo già gettato involontariamente le basi per questo, chiamiamolo così, “piccolo speciale” al quale state assistendo dall’inizio di luglio. Un piccolo speciale (definito “piccolo” solo perché assolutamente casuale e non programmato) dedicato ad uno dei racconti più importanti dell’intero universo lovecraftiano, il già più volte citato “The Whisperer in Darkness” (ovvero "Colui che sussurrava nelle tenebre").

martedì 12 luglio 2016

The Whisperer in Darkness

In questa afosa serata di inizio estate, con il termometro che sembra impazzito e quel dannato ghiacciolo al limone appena preso dal frigorifero che già mi gocciola sulle dita, e la voglia di gettarmi sotto la doccia prevale su qualsiasi altra funzione vitale, occorre trovare il modo per mandare avanti il blog. Non manca poi molto, lo dico già da ora, che anche Obsidian Mirror chiuda per ferie ma, prima che ciò avvenga, c'è ancora qualcosina da raccontare.
Le forze ormai stanno venendo meno e pertanto, un po' furbescamente, oggi proverò con questo post a ottenere il massimo con il minimo sforzo.
In buona sostanza questo è un post doppio, signore e signori. Non nel senso della lunghezza, visto che quella è più o meno la solita, bensì per il fatto che in altri momenti sarei riuscito a scrivere due pezzi distinti su questo argomento. L'articolo di oggi in altre parole ha un duplice scopo: 1) riagganciarsi a Yuggoth!, il piccolo racconto che ho proposto sul blog la scorsa settimana e 2) partecipare all'annuale rassegna "Notte Horror", in compagnia della solita combriccola di blogger cinefili. Fatta questa doverosa premessa, vediamo cosa riesco a scrivere di "The Whisperer in Darkness", uno dei più importati tasselli dell'intera opera di Howard Phillips Lovecraft. Sono un po' timoroso, lo ammetto, al solo pensiero di dover affrontare questo argomento: migliaia di persone in gamba lo hanno fatto molto prima di me e, nel mio piccolo, non potrò certo essere all'altezza dei miei predecessori. Il destino però vuole che questo post arrivi proprio adesso, e quindi così sia.

mercoledì 6 luglio 2016

Yuggoth! (Pt.3)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Quella stessa sera, seppure avvolto dal rassicurante calore della mia abitazione, non riuscii a trovare il modo di scacciare i brividi che tormentavano il mio corpo e la mia anima. Provavo uno strano malessere per il quale non riuscivo a trovare una ragione razionale. A tratti sentivo come se mi mancasse l’aria nei polmoni, cercavo di inspirare profondamente ma non ci riuscivo del tutto. Era come se qualcosa bloccasse le vie respiratorie, come se ci fosse una specie di valvola che una mano invisibile si divertiva a chiudere e aprire a suo piacimento, quasi prendendosi gioco dei miei disperati boccheggi.
Avevo già preso qualcosa dall’armadietto dei medicinali, una di quelle pastiglie che si sciolgono in acqua tra mille bollicine e che vanno bene un po’ per tutto. Ero perfettamente consapevole che si trattava solo di un intruglio di acqua zuccherata al sapor di limone, ma ormai da tempo avevo preso l’abitudine di ingurgitarne una in ogni occasione. Il mio inconscio, in un certo qual senso, godeva del piacere dell’illusione. Mi crogiolavo letteralmente al pensiero che potesse esserci una soluzione reale, palpabile, fisica, ai miei mali. Ma non era così. Non c’erano mali di nessun tipo, perlomeno nessun tipo di male che fosse mai stato catalogato da qualcuno. Il male non era dentro di me: il male era fuori, da qualche parte, tutt’intorno nella stanza e oltre la finestra, giù nella strada e nelle strade a fianco, attraversava tutta la città e si spingeva oltre.

lunedì 4 luglio 2016

Yuggoth! (Pt.2)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Yuggoth! – mi interruppe il mio amico Noyes – Plutone anticamente si chiamava Yuggoth, non lo sapevi? E quando dico anticamente, mi riferisco al fatto che la sua esistenza era stata teorizzata molti anni prima della sua scoperta.
Non capivo come Noyes potesse dimostrarsi così entusiasta di quel piccolo aneddoto che avevo deciso di raccontargli una volta terminate le cordialità di rito tra due persone che non si vedevano da almeno quindici anni. Ezra Noyes era tale e quale a come lo ricordavo: irruente, ironico, irriverente, ma al tempo stesso preciso, attento e affidabile.
 Tuttavia, quando finalmente ebbi il modo di fare il nome di Henry Wentworth Akeley, il mio amico perse del tutto quella predisposizione alla simpatia che aveva contraddistinto i nostri primi minuti di conversazione.
Si ricordava naturalmente benissimo del caso Akeley e, come ebbe modo di spiegarmi, quel nome gli riportava alla mente uno degli avvenimenti più controversi che diversi lustri prima avevano segnato indelebilmente la memoria dei vecchi abitanti di quella regione. Non ne sapeva poi molto, tutto sommato, se non che si era trattato di un caso di cronaca alquanto singolare, un caso di sparizione, forse di omicidio, i cui retroscena non erano mai stati precisati.

sabato 2 luglio 2016

Yuggoth! (Pt.1)

Ripensandoci a mente fredda oggi, due mesi dopo l’epilogo degli avvenimenti che andrò tra poco a narrarvi, mi chiedo per quale strana e assurda combinazione tutto ciò abbia potuto avere inizio. In altri momenti avevo riso di gusto di quei gustosi aneddoti sull’inefficienza del servizio postale. Li avevo sempre considerati più che altro luoghi comuni, quasi impossibili da riscontrare nella vita reale.
Eppure quella mattina di maggio avevo davanti a me la prova che i “viaggi nel tempo” non erano del tutto impossibili, anche se, beninteso, tali viaggi non erano da intendersi come quelli immaginati nei libri e nel cinema di fantascienza.
Un pacco postale, il cui viaggio era iniziato ben ottantacinque anni prima, si era infine materializzato sotto i miei occhi, un reperto di un passato remoto la cui stessa esistenza era rimasta sospesa nel tempo fino a che un impiegato curioso non lo aveva scovato sul fondo di qualche scaffale polveroso, in qualche ufficio o magazzino statale, e non aveva provveduto a metterlo in consegna. Davvero difficile a credersi.
Ottantacinque anni: l’equivalente esatto di tre generazioni, visto che il nome del destinatario, indicato, con una scrittura incerta ma ancora leggibilissima, sulla carta giallo-ocra dell’imballo, era chiaramente quello del mio nonno paterno, Albert Wilmarth.

domenica 26 giugno 2016

Quattrocento!

Era un uggioso pomeriggio di aprile… ehm… ehm… no, forse questo l’ho già detto. Tranquilli, non starò qui a raccontarvi per l’ennesima volta di quel giorno che, per ingannare alcune ore altrimenti noiose, decisi di aprire il blog. In fondo, in questi cinque anni abbondanti di blogging saranno pure capitate altre cose di cui vale la pena parlare, no? In cinque anni tante cose sono cambiate.
Il sottoscritto, per esempio, è di un lustro più anziano rispetto al “ragazzino” che iniziò a scribacchiare timorosamente in questo luogo. Cinque anni sembrano un’eternità ma, quando anagraficamente passi i trenta, allora tutto inizia a volare e cinque anni scivolano via in un attimo, che nemmeno te ne accorgi. A metà luglio compirò quarantanove anni. Praticamente un incubo. Ammetto che quarantanove non è poi molto diverso da quarantotto o da quarantasette, ma quarantanove è troppo pericolosamente vicino a cinquanta per non iniziare sin d’ora a pensarci con un brivido di terrore.
Quando sei giovane pensi ai cinquantenni come a dei "tagliati fuori" totali. Io stesso ricordo (roba di molti anni fa) un mio infelice commento nei confronti di un cinquantenne che si era perso mentre cercavo di guidarlo al telefono nella rimozione di un programma dal registro di sistema di Windows XP. Tra un po’, teoricamente, dovrei essere nei suoi panni e, volente o nolente, dovrò in qualche modo rispondere alle nuove generazioni dei miei limiti tecnologici. D’altra parte se mi guardo in giro vedo cose che a me non attirano per niente ma che, mi pare di capire, hanno un seguito mostruoso.

lunedì 20 giugno 2016

Orizzonti del reale (Pt.8)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Il 1967 fu un anno cruciale per il Medio Oriente, perché in soli sei giorni lo stato di Israele combatté e vinse un conflitto armato contro Giordania, Egitto e Siria – la cosiddetta Guerra dei Sei Giorni, appunto - un conflitto prevedibile, scatenato da incomprensioni, rivalità mai sopite e una lunga serie di mutue provocazioni e scontri lungo le frontiere che perdurano ancora oggi. Le conseguenze, anche sul piano internazionale, furono moltissime e non serve che le riassuma io, ma fra quelle più sommerse legate alla presa di Gerusalemme Est (non dico minori perché no, per me non lo fu) vi fu l’inizio del “monopolio di stato” dei Rotoli del Mar Morto.
Ora che i Rotoli erano proprietà di Israele, anche il team di studiosi che lavorava alla loro decifrazione passò sotto il controllo del suo governo e le cose divennero, se possibile, ancora più complesse. In un momento storico così delicato, era ovvio che Israele non avrebbe di buon grado aggiunto alle dispute politiche quelle religiose, supportando una ricerca le cui derive rischiavano di compromettere i propri rapporti di “buon vicinato” con il Vaticano e le altre nazioni. Inoltre, indagare le radici del cristianesimo poteva mettere in discussione anche le radici dell'ebraismo. Insomma, forse nessuno più di Israele poteva (può) avere interesse a tener celato il contenuto più controverso dei Rotoli.
I Rotoli vennero chiusi in un museo che attualmente è sotto il controllo dell'Israel Antiquities Authority (IAA), e il suo accesso venne strettamente limitato e regolato dalle autorità. La cosa di per sé non fu un male, anzi si può dire che fosse un passo necessario nell'ottica di conservare al meglio i Rotoli stessi, l'80% dei quali sono scritti su pelle o pergamena e il 20% circa su papiro: prelevati dalle caverne, un ambiente relativamente stabile che, nel bene e nel male, ne aveva permesso la conservazione per duemila anni, essi cominciarono a deteriorarsi e altri danni vennero fatti, se pure involontariamente, da coloro che li maneggiarono, li fotografarono, li sottoposero a datazione al carbonio 14 o ad altri esami. Bisognava ricreare un ambiente il più possibile idoneo, per temperatura e umidità, a preservarli.
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