domenica 20 dicembre 2015

Arriving Somewhere...

Siamo giunti così anche all’ultimo post del 2015 per Obsidian Mirror, l’ultimo prima della tradizionale sosta natalizia. Ancora poche righe e ci scambieremo gli auguri e ci diremo arrivederci al 2016, ma prima di farlo ci tengo a scambiare le consuete quattro chiacchere con voi.
Oddio, in questo momento mi sento un po’ come il Presidente della Repubblica in procinto di fare il suo discorso di Capodanno. Starò mica dando questa impressione? Forse conviene che mi fermi un attimo, che mi prenda un bel respiro, magari che mi faccia un giro nell’altra stanza, mi spalpotti un po’ la Piera dopo averla strappata dal suo termosifone rovente (immagine a lato), e poi che ricominci da capo.
Ecco fatto. Spalpottamento completato.
Dicevamo? Dicevamo di Obsidian Mirror e del suo post del cazzeggio prenatalizio… Ah, le chiacchiere! C’è bisogno di una sana dose di quelle chiacchiere che, me ne sto rendendo conto proprio di questi tempi, mancano da un bel po’ da queste parti. Mesi e mesi impegnato a parlare di Yellow Mythos e di Orizzonti del reale e mai, dico mai, una sana chiacchiera degna di un sano Bar Sport. Starò mica diventando noioso? Ditemelo! Perché alla soglia dei cinquant’anni la trasformazione in un bipede barboso potrebbe anche essere una conseguenza naturale del mio ciclo vitale. Dite di no? Eppure sento che c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe. Percepisco una strana sensazione che non saprei definire a parole. Il sottoscritto blogger, che si sta avvicinando lentamente al suo quinto anno di attività, non sta rispondendo come vorrebbe alle sollecitazioni esterne. Colpa mia, che per qualche ragione sto vivendo non troppo bene un periodo non esattamente esaltante.

martedì 15 dicembre 2015

Lo strano caso di Elisa Lam (Pt.3)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Elisa Lam era sola quel giorno? Da chi si nascondeva? Stava fuggendo da qualcuno? Che ne è stato di lei quando è sparita dal campo visivo della telecamera? E soprattutto, quali sono state esattamente le circostanze che l’avrebbero portata in quella maledetta cisterna sul tetto dell’edificio? 
A tutte queste domande tenteremo oggi di dare una risposta. 
Abbiamo visto, nei giorni precedenti, di quanti e quali indizi si siano arricchite le speculazioni di chi ha cercato a ogni costo di trovare una soluzione all’enigma del video registrato dalla telecamera di sorveglianza. Su alcuni di questi vale la pena soffermarsi; altri particolari sono invece più che altro il frutto della follia paranoica dei tanti piccoli Dylan Dog che infestano la rete. Tra questi, la pretesa di voler vedere in quella “strana nebbiolina” visibile al minuto 3:05 i contorni di un volto demoniaco e, giusto per non farsi mancare nulla, il volto di uno dei serial killer che anni prima avevano alloggiato al Cecil Hotel. In questo caso siamo ben oltre un semplice fenomeno di pareidolia, ma siamo anche davvero oltre la soglia del ridicolo. Molto più significativa è invece l’evidenza del taglio apportato al video di Elisa prima che questo venisse diffuso in rete.

giovedì 10 dicembre 2015

Lo strano caso di Elisa Lam (Pt.2)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Come aveva potuto Elisa Lam recarsi non vista sul tetto dell’hotel dato che tutti gli accessi, porte e scale, risultavano chiusi a chiave? Come aveva potuto gettarsi dentro un serbatoio praticamente inaccessibile? Ma soprattutto, cosa si nasconde dietro quel video ripreso dalla telecamera interna a circuito chiuso?
Considerato il fatto che quel video è l’unica cosa che abbiamo, proviamo a riguardarlo, analizzarlo un pezzetto alla volta e vediamo cosa riusciamo a cavarne fuori (per il video tenete sottomano il mio post precedente).
Il video mostra le porte dell’ascensore che si aprono e pochi istanti dopo appare Elisa Lam (minuto 0:04). Gli abiti che le vediamo indossare, per inciso, sono gli stessi che saranno ritrovati galleggiare nell'acqua della cisterna accanto al suo cadavere, il che suggerisce l’ipotesi che il video possa risalire al giorno stesso della sua morte. La osserviamo entrare nell’ascensore, voltarsi verso la pulsantiera e (minuto 0:09) mettersi a pigiare furiosamente diversi tasti (ne conto almeno cinque o sei): Elisa si porta quindi sul fondo della cabina, mentre le porte dell’ascensore sembra che accennino a chiudersi (0:13), senza però riuscirci. In questi primi 13 secondi abbiamo già assistito a due episodi inspiegabili che possibilmente, prima della fine di questo post, dovranno essere chiariti: 1) perché Elisa preme tutti quei pulsanti? 2) perché le porte non si chiudono?

sabato 5 dicembre 2015

Lo strano caso di Elisa Lam (Pt.1)

Sembra quasi strano come taluni argomenti a volte sembrino reclamare il loro spazio sul blog in maniera così prepotente. Non capita più così spesso come all’inizio, ma ancora oggi succede che mi imbatto in una notizia, ne rimango folgorato e leggo voracemente tutto quello che c’è da leggere in giro; poi inizio a rimuginarci sopra la notte prima di addormentarmi e, quasi in automatico, la mattina successiva mi metto davanti alla tastiera e finisce che ne vengono fuori cinque o sei pagine ricolme di pensieri e riflessioni. È il caso della vicenda di Elisa Lam, o meglio delle misteriose circostanze che portarono alla morte di una ragazza ventunenne, tra le mura di un hotel di Los Angeles, nel febbraio di due anni fa. Ammetto, tra le altre cose, che non avevo mai sentito il nome di Elisa Lam fino a poche settimane fa, quando una visitatrice anonima di Obsidian Mirror la nominò in un commento, altrettanto anonimo, a un mio vecchissimo post. È proprio grazie a tale imbeccata che oggi sono qui a cercare di ricostruirne la vicenda. 
Tutto ebbe inizio in un giorno d’inverno come tanti altri e, se non fosse per un particolare agghiacciante, che di lì a poco avrebbe innescato la miccia mediatica, la vicenda di Elisa Lam si sarebbe rapidamente spenta nel silenzio come migliaia di altri casi di cronaca, uno dei tanti casi che inondano quotidianamente la stampa locale e che spesso si risolvono nel nulla. Quella volta però andò diversamente.

lunedì 30 novembre 2015

The Dream-Leech

Come closer and taste the kiss of Carcosa! (William Laughlin, 1961-2004)

Un paio di mesi fa avevamo chiuso uno dei tanti articoli di questa lunga serie dedicata agli "Yellow Mythos" con una domanda che finora era rimasta senza risposta: che rapporti vi sono (se ve ne sono) tra tutti quei medici specializzati in psichiatria che appaiono quasi sistematicamente nei tanti racconti che abbiamo affrontato? Facciamo un piccolo riassunto. Il primo, l'originale dottor John Archer, ebbe in cura Hildred Castaigne ne "Il riparatore di reputazioni" di Robert W. Chambers (1895) e, come abbiamo visto qui, perse la vita proprio per mano del suo paziente. Il secondo psichiatra fu invece una donna, anche lei Archer di cognome, che avrebbe avuto in cura Constance Castaigne, ne "Il fiume dei sogni notturni" di Karl Edward Wagner (1981). Ai tempi avevamo ipotizzato che quella nuova Archer (il cui nome di battesimo non era però stato precisato) avrebbe potuto essere la figlia del sopra citato John Archer, essendo il racconto, come dimostrato, posizionato cronologicamente circa 25 anni dopo i fatti raccontati da Chambers. Successivamente due nuovi psichiatri fecero contemporaneamente la loro apparizione nel racconto di Ann K. Schwader, "Tattered Souls" (2003), e i loro nomi erano Barbara Post e Monte Spielman. Non avevamo ancora trovato alcun collegamento tra questi ultimi e i due Archer, almeno fino a oggi...

mercoledì 25 novembre 2015

La cisterna

Il paese ha bisogno di riforme, riforme che non possono più essere rinviate. Occorre rendere più flessibile il mercato del lavoro. Non si può pensare alla scuola come a un ammortizzatore sociale. Siamo disponibili al confronto con l’opposizione e le parti sociali. Quante volte abbiamo ascoltato distrattamente queste frasi al telegiornale? Talmente spesso che, ne sono sicuro, ormai hanno per noi perso di significato. Non facciamo nemmeno più caso a chi le pronuncia e a quale sia il contesto dal quale tali frasi emergono. Frasi buttate lì e alle quali non prestiamo più attenzione, consci come siamo che chi le pronuncia ha come unico fine quello di ottenere voti, con i quali ottenere potere e con il quale ottenere benefici personali. I recenti episodi che hanno visto come protagonisti burocrati statali dai nomi eccellenti, pescati come mille altri loro predecessori con le mani nel sacco, tra episodi di clientelismo e vicende di peculato, ci fanno indignare, se non addirittura rabbrividire, però continuiamo a tirare avanti per la nostra strada, a capo chino, brontolando al cielo e sperando, dentro di noi, che qualcuno abbia il coraggio di cambiare le cose. Eppure la storia ci insegna che l’umanità si è trovata più volte di fronte a situazioni di questo genere. La corruzione sempre più diffusa all’interno delle cosiddette democrazie ha fatto in modo che queste ultime sfociassero in qualcosa di ben peggiore. Le dittature nazi-fasciste che insanguinarono l’Europa per tutta la prima metà del Novecento, giusto per fare un esempio, vennero in risposta alla crisi strutturale dei sistemi parlamentari. Tutte le grandi dittature sono sorte a causa dell’illusione del popolo di poter restaurare una democrazia non più rispondente alle necessità pubbliche.

venerdì 20 novembre 2015

Orizzonti del reale (Pt.3)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Paolo Mantegazza, monzese, classe 1831, è uno di quei personaggi incomprensibilmente caduti nel dimenticatoio, uno di quelli che si scoprono solo per caparbietà, per il voler indagare a tutti i costi tra le pieghe della storia. Ma ne vale la pena, perché Mantegazza fu il co-fondatore di quella che chiamò la “scienza degli alimenti nervosi” e che Samorini definisce invece senza troppi giri di parole “scienza delle droghe”, e se è vero che gli studi ai quali si dedicò non sono del tipo che può appassionare il grande pubblico (o almeno credo), dal punto di vista accademico ebbero un peso notevole e meritano pertanto di essere riportati alla luce. In particolare, il suo saggio del 1858 “Sulle virtù igieniche e medicinali della coca e sugli alimenti nervosi in generale” fece molto scalpore, identificandolo in seguito come colui “grazie” al quale l'Occidente aveva cominciato a interessarsi alla cocaina (di cui lo stesso Mantegazza divenne un incallito consumatore fino in tarda età), mentre invece il suo interesse era rivolto in generale a tutte le droghe psicotrope nell'ambito di un progetto di ricerca psicofarmacologica ampio e articolato, come dimostrarono le successive pubblicazioni, inclusa “Quadri della natura umana. Feste ed ebbrezze”, vero caposaldo della letteratura sulle droghe oltre che, probabilmente, il suo lavoro più importante. 
È probabile che questo suo stretto legame con la cocaina, vista la pessima reputazione che questa droga ha oggigiorno, abbia contribuito non poco a gettarlo nell'oblio in cui è stato relegato nell'ultimo secolo e mezzo. Tuttavia, bisogna considerare che nella definizione di Mantegazza di alimenti nervosi non rientrano solo quelle che noi al giorno d'oggi consideriamo a tutti gli effetti delle droghe, come appunto la cocaina, o l'oppio, l'haschisch e l'ayahuasca, ma anche alcuni alimenti che sono ancora di uso comune: bevande fermentate e distillate (vino, birra, liquori…), alcaloidi (caffè, tè, tabacco…), aromatici (pepe, salvia, menta, origano, aglio, cipolla…). Mantegazza si auspicava per ognuno di essi un uso “alterno e sapiente” che avrebbe prodotto “gioia, salute e forza”. Si può dire che il suo auspicio si sia avverato solo in parte. 

domenica 15 novembre 2015

La maschera della morte gialla

La mia recente digressione nel mondo di Edgar Allan Poe non era programmata, ma prima o poi sarebbe dovuta in qualche modo arrivare, visto l’evidente nesso che “La maschera della morte rossa” ha con gli Yellow Mythos chambersiani. Non credo serva ricordare che di questo si è parlato giusto pochi giorni fa, ad ogni modo, visto che l’argomento è stato interrotto per dare visibilità a un’iniziativa di guest blogging, riprendo oggi dal punto in cui mi ero interrotto. 
Il racconto uscito dalla penna di Poe nel 1842 è certamente uno dei suoi più famosi, se non addirittura il più famoso in assoluto. Ricordo perfettamente che era addirittura presente nella mia antologia scolastica ai tempi del biennio delle superiori (se non addirittura delle medie). Credo a questo punto di non esagerare nel dire che fu proprio la lettura di quel racconto, avvenuto in un periodo indiscutibilmente importante per la mia formazione, ad aver trasformato il fanciullo di allora nell’uomo che conoscete. Nonostante quel senso di meraviglia e di follia che la morte rossa mi aveva trasmesso durante la lettura, ricordo che la mia mente di fanciullo non riusciva a metterne a fuoco il significato, non poteva fare a meno di chiedersi cosa diavolo ci facesse un racconto del genere in un’antologia scolastica. In sostanza, non ero riuscito ad arrivare al punto: cosa rappresentava tutto ciò? In parte, quella domanda è ancora in cerca di una risposta. Più che altro la domanda oggi è diventata “perché quel racconto e non un altro di Poe?”.

martedì 10 novembre 2015

La maschera della morte rossa

Solo qualche settimana fa, in coda a uno dei miei tanti articoli facenti parte della serie dedicata ai miti “in giallo”, un lettore mi pose nei commenti la seguente domanda: “Esiste qualcosa che non debba la sua origine al mitico Bierce? Anche quello che non sembra suo... è suo!”. Una domanda ben più che legittima, visto che tutto ciò che abbiamo affrontato finora sembra derivare da un paio di racconti dello scrittore americano, nella fattispecie “Un cittadino di Carcosa” (1887), di cui abbiamo parlato qui, e “Haita, il pastore” (1891), di cui parleremo spero a breve. Robert W. Chambers, come sappiamo, prese poi spunto da Ambrose Bierce e, solo pochi anni più tardi, utilizzò i suoi personaggi e i suoi scenari per realizzare l’ossatura della sua raccolta “Il re in giallo” (1895). Tutti i testi che abbiamo finora preso in esame provengono da quei primi lavori, ivi compreso il celeberrimo “Colui che sussurrava nelle tenebre” (Howard Phillips Lovecraft, 1930), l’unico racconto scritto dal “Solitario di Providence” nel quale è esplicita l’influenza dei suoi illustri predecessori. Va però ricordato, per dovere di completezza, che “Il ritratto di Dorian Gray” (Oscar Wilde, 1890) precede, seppure di soli cinque anni, il lavoro di Chambers, e fu proprio dal romanzo dello scrittore irlandese che, come sappiamo, quest’ultimo trasse l’idea del libro giallo maledetto (ne abbiamo parlato qui e qui). Di conseguenza, alla domanda se “esiste qualcosa che non debba la sua origine a Bierce” la risposta non può che essere affermativa.
Robert W. Chambers ha in buona sostanza saccheggiato almeno due autori, tra l’altro entrambi suoi contemporanei. È tutto? Ovviamente no, altrimenti non sarei qui a scrivere un post che si intitola “La maschera della morte rossa”, non vi pare?

giovedì 5 novembre 2015

Tikkun

Ecco, ci sono ricascato. Nel proporre sul blog una novità, intendo. Anche se ormai sono trascorsi due mesi abbondanti dall’anteprima di Locarno, si può dire che siano ancora in pochi ad avere visionato “Tikkun”, lungometraggio del regista israeliano Avishai Sivan.
Locarno mi ha regalato il mio primo film israeliano, e questo mi pone di fronte alla doppia difficoltà di affrontare un regista che non conosco e di addentrarmi in una cultura a me semisconosciuta come quella ebraica. Normalmente, un film come questo lo si può approcciare in due modi, identificandone i temi portanti (e gli archetipi) e cercando una sua collocazione all'interno della filmografia del regista. In questo caso, il primo metodo è insufficiente e il secondo non mi è possibile, anche perché ho letto che “Tikkun” sarebbe il secondo capitolo di un’ideale trilogia ambientata nel mondo dell’ortodossia ebraica inaugurata nel 2010 con “The Wanderer” (presentato proprio quell’anno alla Quinzaine des réalisateurs).
Inoltre questo è uno di quei film (sarà un caso) il cui reale significato sembra voler continuare a sfuggirmi. Ogni premessa a cui giungo a ogni snodo della trama mi porta a una conclusione, ma anche alla conclusione opposta. Certamente è un mio limite, ma immagino di non essere l’unico a vedere nelle tematiche affrontate una certa ambiguità di fondo che, di certo, giova al film. Descrivere quello di Avishai Sivan come un film religioso sarebbe fuorviante, ma nemmeno del tutto errato. E non intendo con questo che voglia trasmettere chissà quale morale religiosa, ma (banalmente) che sfrutti tanti e tali simboli religiosi (la cavalletta/locusta, il coccodrillo, il cavallo, la nebbia…) da provocare una sorta di corto circuito nello spettatore (o perlomeno per me è stato così). È chiaro che non poteva essere altrimenti, dato che “Tikkun” è ambientato nel mondo dell’ortodossia ebraica: il film narra la storia di Haim-Aaron ma anche quella di suo padre e, di conseguenza, quella di un’intera comunità le cui radici sono ben salde nella religione, una religione legata a una tradizione biblica millenaria.

sabato 31 ottobre 2015

Hell's Bells diventa un ebook

Ero piuttosto indeciso quest'anno su come affrontare l'annuale appuntamento con la notte delle streghe. L'anno scorso avevo recensito un film, l'anno prima mi ero concentrato sul folklore, l'anno prima ancora... non mi ricordo più. Cosa fare quindi questa volta per non ritornare accidentalmente su argomenti già trattati in precedenza? Semplice: ho deciso di ritornarci sopra volutamente.
L'idea mi è venuta dopo aver letto alcuni dei commenti giunti qui in questo blog nelle scorse settimane, commenti nei quali mi veniva proposto di impacchettare alcuni dei miei post e realizzarne degli ebook.
Ammetto che solo fino a poco tempo fa non avrei mai pensato a una soluzione di questo genere ma, adesso che la pulce mi è stata infilata nell'orecchio, l'idea comincia a premermi nel cervello, solleticando non poco la mia fantasia. 
Prima però di mettermi a rielaborare progetti più complessi (come la lunga saga sugli Yellow Mythos, tanto per dirne una), pensavo di tentare un esperimento su qualcosa di più semplice, qualcosa che mi permettesse di ottenere un risultato decente senza perderci sopra troppo tempo. La mia scelta è quindi ricaduta su un vecchio racconto che era apparso qui sul blog diversi anni fa, addirittura nell'era Cenozoica di Obsidian Mirror, quando da queste parti non capitava nessuno neanche per sbaglio. Il racconto in questione l'avevo intitolato "Hell's Bells", giocando un po' a mescolare il titolo della famosa canzone con il nome di alcuni dei protagonisti della vicenda narrata. Il titolo di allora l'ho ovviamente mantenuto: in fondo, cosa avrei potuto trovare di meglio?

lunedì 26 ottobre 2015

Gotico napoletano (Pt.4)

L’uomo dai capelli tinti ci propone invece un protagonista alienato e, in definitiva, vittima di se stesso, tutte caratteristiche che permettono di accostarlo sia al Tomasz Odonicz de Lo sguardo che al protagonista senza nome del grabińskiano Saturnin Sektor. Ma forse, a pochi mesi di distanza dal mio speciale su Stefan Grabiński (che trovate qui), e quindi con la mente ancora fresca, queste associazioni per me sono semplici quanto poco opportune. Ad ogni modo il dottor Arsenius, il nostro uomo dai capelli tinti, è preda di uno scherzo assurdo generato in qualche piega remota del suo stesso cervello, uno scherzo che di pagina in pagina assumerà contorni sempre più surreali, fino ad esplodere in un finale sorprendente quanto magnifico nella sua ideazione. "La polizia internazionale è in movimento per rintracciare un pericoloso anarchico, che a Chicago si faceva chiamare John Willis, e che è accertato essere l’autore del terribile incendio all’Union Theatre, dove morirono tante persone, dell’alta borghesia e dell’alto commercio, alcune settimane or sono: incendio che sinora si credeva accidentale. Il Willis è sparito da quel tempo e si ha ragione di credere che si trovi in Europa. I suoi connotati sono: statura alta, complessione magra, quasi fantastica, mani sottili, scheletriche, occhi grigi. Un neo sulla tempia sinistra. Il riconoscimento, però, è reso difficile da una circostanza: la sua chioma, ch’era abbastanza imbiancata, deve essere stata tinta, e abilmente.".

sabato 24 ottobre 2015

Gotico napoletano (Pt.3)

In chiusura del post precedente dicevamo che Marrama visse in un’epoca nella quale il fantastico era per lo più popolato da creature terrificanti, magari immateriali, ma con una loro innegabile fisicità. Proprio una di queste creature la ritroviamo nel racconto Una terribile vigilia, ancora una volta ambientato in un ospedale, seppure del tipo “tradizionale”, diversamente da quello del più volte citato dottor Salenti. “Un giorno, ai primi di dicembre, giunse uno sventurato, un pastore che era stato morsicato da un lupo arrabbiato. Il professore Chimenti, che dirigeva l’ospedale, lo presentò alla sua scolaresca e a noi, suoi coadiutori, come un caso importantissimo, tanto più che non c’era speranza di salvarlo, e ci parlò delle teorie di Pasteur, che allora erano recentissime, del virus e del tempo in cui si svolge la sua azione fatale e della orrenda agonia che è serbata a tutti gli infelici che non ricorsero in tempo al soccorso della scienza.” Il lupo mannaro è stato (ed è) uno dei personaggi più sfruttati dalla letteratura, e già all’inizio del secolo scorso fiumi d'inchiostro erano stati versati per narrarne la leggenda (basti pensare a Le Metamorfosi di Ovidio per farsi un'idea di quanto può essere antico l’approccio a quest'argomento). Tuttavia credo di non sbagliarmi dicendo che a Daniele Oberto Marrama andrebbe riconosciuto il gran merito di essere stato il primo a scrivere di lupi mannari nel nostro paese, anticipando di una decina d’anni il ben più celebre Male di luna di Luigi Pirandello

giovedì 22 ottobre 2015

Gotico napoletano (Pt.2)

Se ne Il ritratto del morto è la riconoscenza ad aprire una porta tra il mondo reale e il mondo del sovrannaturale, ne Il Natale di Hans Boller la chiave sarà il desiderio o, meglio, un desiderio insoddisfatto veicolato da uno degli oggetti-simbolo del gotico: un medaglione. Anche in questo caso, come nel precedente e in altri racconti, la vicenda viene presentata dalla viva voce del protagonista che ricorda avvenimenti passati, un espediente che sicuramente (rassicurandoci sulla sorte di chi narra) smorza un po' la suspense e tuttavia trasmette perfettamente quell'atmosfera gotica e quella sottile vena malinconica che, a mio parere, sono il vero punto di forza della prosa di Marrama. 
Siamo nella Francia del 1789, che di lì a poco sarà il palcoscenico degli ultimi tragici giorni di Maria Antonietta. Protagonista è Hans Boller, uno dei “più valenti miniaturisti di Francia” che, ospite del conte Du Marsy de Yvonac in un castello della lontana Bretagna, riceve una missiva nella quale Sua Maestà la Regina lo avverte del suo desiderio di riceverlo a corte “per presentarlo a una sua nuova e giovane damigella d’onore, Lucia de Champdelys”, alla quale egli dovrà eseguire un ritratto in miniatura da inserire in un medaglione. Una serie di sfortunate vicissitudini impediscono però al nostro di partire e, quando finalmente il momento adatto giunge, il vento di cambiamento che ormai spira da Versailles lo dissuade dal suo proposito. “Quanto a lungo, mi aveva aspettato la giovane damigella d’onore! E che cosa era avvenuto di lei, più tardi? Dove si trovava, adesso? Era fuggiasca? Era a Parigi? Viveva ancora?”.

lunedì 19 ottobre 2015

Gotico napoletano (Pt.1)


“Il soprannaturale? E chi può parlarne con cognizione di causa? Chi può dire, sinceramente, se ci sia un limite fra quello che è e quello che pare? Chi ha ancora acquistato il diritto di distinguere la visione dalla realtà?” (Daniele Oberto Marrama, Il ritratto del morto)
Credo di dover riconoscere infinita stima alla giovane casa editrice Cliquot per avermi permesso di aggiungere un tassello fondamentale alla mia passione per la letteratura cosiddetta “weird” (o fantastica, se preferite). Un tassello che rischiava di andare perduto, un tassello tanto più importante in quanto scovato addirittura entro i confini del nostro paese, dissotterrato e riportato al suo splendore in quel capoluogo campano che tanta attenzione ha sempre riservato alle proprie leggende e alle proprie tradizioni. Daniele Oberto Marrama nacque a Napoli nel 1874 e, come ci riferisce Gianfranco De Turris nella sua ottima prefazione, prestò per anni la sua penna a diverse testate giornalistiche, fra cui Il Mattino e Il Giorno, sulle cui pagine gestiva uno spazio dedicato a recensioni artistiche e letterarie. Fu inoltre redattore capo de La Settimana, rivista letteraria fondata da Matilde Serao alla quale avremo modo di accennare ancora in seguito. Avevate mai sentito nominare Daniele Oberto Marrama? No? Cosa rispondereste se vi dicessi che alcuni dei suoi racconti non hanno nulla da invidiare a quelli dei grandi maestri del fantastico?

mercoledì 14 ottobre 2015

Orizzonti del reale (Pt.2)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

L'estasi è sempre uno stato eccezionale, passeggero, e la più parte degli uomini non l'ha mai provato. Taluni più rozzi e incolti durano fatica anche a immaginarselo. La sua bella etimologia greca ex-stasis, lo star fuori, esprime mirabilmente questo concetto (Paolo Mantegazza, “Le estasi umane”, 1887).
La prima cosa a colpirmi, nel leggere “Le porte della percezione”, è stato lo scoprire che Aldous Huxley rimase di fondo insoddisfatto della sua esperienza: all’assunzione della mescalina non fece seguito nessuna rivelazione assoluta, e anche se lui aveva sperato di poter modificare la sua coscienza ordinaria in modo da essere in grado di conoscere dall’interno ciò di cui parlano il visionario, il medium e perfino il mistico, ciò non era avvenuto, perlomeno nei termini in cui se l’era immaginato. E di se stesso egli, che pochi anni dopo la sua morte sarebbe stato definito da Timothy Leary un visionario e il “bodhisattva dell'era nucleare”, diceva di essere povero d’immaginazione (!).
"Da ciò che avevo letto dell’esperienza della mescalina, ero convinto in precedenza che la droga mi avrebbe introdotto, almeno per qualche ora, nella specie di mondo interiore descritto da Blake e da Ӕ. [...] Ma non avevo calcolato, era evidente, le idiosincrasie della mia struttura mentale, i fatti del mio temperamento, della mia educazione e delle mie abitudini.".

venerdì 9 ottobre 2015

La dinastia di Carcosa (Pt.2)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Continua oggi la nostra avventura alla ricerca della perduta città di Carcosa. All'alba del diciannovesimo post di questa serie dedicata agli Yellow Mythos è giusto tirare le prime somme. Mi rendo conto che, per chi mi legge, è stato dannatamente complicato star dietro alle mie riflessioni, se non altro per il fatto che tutto questo ha avuto inizio nell'ormai lontana estate del 2013 e che, nel corso di questi abbondanti due anni, le mie pubblicazioni sono apparse un po' a singhiozzo. Proviamo però comunque ad azzardare qualche ipotesi. Riusciremo a fare qualche passo importante in direzione di Carcosa?
Oggi cercheremo di mettere in fila gli elementi certi e di inserire nella nostra "to do list" gli elementi che ancora rimangono da chiarire. Tutto questo nella certezza che un universo intero ci rimane ancora da esplorare, un tutt'altro che trascurabile particolare che potrebbe far traballare le nostre certezze nel giro di poco tempo. 
La volta scorsa vi avevo proposto un giochino, una serie di domande che erano, più che altro, un piccolo invito a riflettere su alcuni particolari che avevo disseminato qua e là nei miei articoli. Nessuno si è sbilanciato troppo ma... diciamo che lo avevo messo in conto. Ad ogni modo oggi possiamo comunque provare a dare delle risposte. Le prime cinque domande erano semplici, diciamo pure che erano domande retoriche, alle quali bastava rispondere con un cenno affermativo. Le seconde cinque invece richiedevano un pochino più di sforzo e una certa dose di attenzione.

lunedì 5 ottobre 2015

La dinastia di Carcosa (Pt.1)

"Qualcosa nelle profondità inesplorate della sua anima si era rigirata come un coltello nella carne. Cassilda. Una confusa rete di relazioni, di vaghe parentele, di intere dinastie, iniziarono a prendere forma dentro di lei. Avrebbe voluto ricacciare indietro quei pensieri ma le esigenze della sua professione prevedevamo il contrario.“Raccontami della tua famiglia, Cassilda. Dimmi di…” Barbara esitò, abbassando lo sguardo. “Dimmi di Aldones. È un nome che conosci? È una famiglia?". L’espressione di Sylvia si indurì. “Sì”.“Qual è la sua relazione con te?".“Cugino e usurpatore. Traditore. Poiché era un uomo, aveva invocato per sé il diritto alla successione ma non è sopravvissuto abbastanza per profanare il trono di nostro padre.”  (Ann K. Schwader, Tattered Souls, 2003).
Sembra sia ormai giunto il momento di tirare le somme di quanto è emerso dal racconto di Ann K. Schwader e di mettere tutto in relazione a quanto già avevamo imparato in precedenza. 
Nel racconto della Schwader abbiamo fatto la conoscenza di una certa Sylvia C. la quale, indotta in uno stato di regressione ipnotica, afferma di chiamarsi Cassilda e di provare una buona dose di risentimento nei confronti di un cugino che definisce "usurpatore" e che avrebbe "invocato per sé il diritto alla successione", senza tuttavia riuscire a "profanare il trono di nostro padre". Tali parole non possono che riportarci alla mente ciò che disse Hildred Castaigne nel racconto "Il riparatore di reputazioni", scritto oltre un secolo prima da Robert W. Chambers.

mercoledì 30 settembre 2015

Cento libri di formazione

Alla fine ce l'ho fatta a partecipare alla bella iniziativa di Ivano Landi. Naturalmente ho usato un piccolo espediente, perché mai sarei riuscito da solo in quest'impresa. Ma andiamo con ordine...
L'idea di questo post deriva, come ci racconta Ivano, da un episodio della vita di Henry Miller, al quale fu chiesto di stilare un elenco dei cento libri che, più di altri, avessero influenzato la sua scrittura. 
Ivano e molti altri colleghi blogger dopo di lui si sono quindi cimentati in quella stessa impresa che, ve lo posso dire ora che  tentato (inutilmente) di venirne a capo, è praticamente impossibile.
L'inghippo sta nel fatto che la lista non deve contenere libri che sono piaciuti, bensì quelli che in un modo o nell'altro hanno contribuito alla nostra formazione personale e che, come dice Ivano, "sono diventati inchiostro del nostro inchiostro". Tutto ciò taglia via in maniera netta gli ultimi anni, se non decenni, visto che, con poche eccezioni, non può esserci un libro recente che possa aver contribuito alla mia formazione che, in quanto tale, si è compiuta in gran parte negli anni precedenti.

domenica 27 settembre 2015

Mondo Blog

A un anno di distanza (o poco meno) dalla volta precedente si ritorna a parlare di blog e di blogger anche da queste parti. In questi primi giorni di autunno Obsidian Mirror è ormai tornato, come averete notato, ai suoi ritmi consueti, quelli che prevedono un nuovo post ogni quattro o cinque giorni: un giusto compromesso, nella pratica, tra le necessità imposte dai ritmi della vita reale e le gioie derivanti da questo mondo fantastico, al quale l'aggettivo "virtuale" oggi mi sembra ormai vada troppo stretto. In questi giorni, dopo la lunga pausa estiva, abbiamo portato avanti percorsi già tracciati in precedenza e abbiamo aperto nuove strade, nell'ottica di creare nuova linfa e proporre in continuazione materiale che possa coinvolgere, con immutata passione, lettori vecchi e nuovi. Le speranze di riuscire a mantenere i buoni propositi sono tante, le certezze un po' meno, per cui andiamo avanti senza pensarci troppo. Ormai lo avrete capito: questo è un post privo di logica e ricco di chiacchiere, uno di quelli in cui si inizia a tamburellare sulla tastiera senza avere bene in mente ciò che ne verrà fuori alla fine. Ogni tanto anche questo ci sta, no? Non è che si può sempre parlare dei massimi sistemi.

giovedì 24 settembre 2015

Anime dilaniate (Pt.2)

“Quando il governo francese ne aveva sequestrato le copie appena giunte a Parigi, Londra ovviamente aveva cominciato a bramarne la lettura: com’è noto, il libro si diffuse come una malattia infettiva, di città in città, di continente in continente, proibito qui, sequestrato là, condannato dalla stampa e dal pulpito, censurato persino dai più moderni fra i letterati anarchici." (Robert W. Chambers, The Repairer or reputations, 1895).
"Oltre un secolo fa il governo francese aveva presumibilmente bruciato la prima edizione tradotta de Le Roi en Jaune che aveva attraversato i suoi confini. Dopo aver letto il secondo atto [la dottoressa Barbara Post, ndr] ne aveva compreso il significato, sebbene fino a quel giorno non fosse sicura del vero motivo per il quale avesse gettato la propria copia nelle acque della Senna." (Ann K. Schwader, Tattered Souls, 2003).
La maggior parte delle copie del famigerato "Re in Giallo", perlomeno l'edizione in francese, vennero quindi distrutte secondo quando inizialmente riferitoci da Chambers e confermatoci un secolo più tardi dalla Schwader. Eppure si direbbe che, nonostante tutto, alcune copie siano riuscite a scampare all'oblio. Una di queste salta fuori, sorprendentemente (ma non troppo), dalla borsetta di Sylvia C. proprio nel corso della prima seduta presso lo studio-abitazione della dottoressa Barbara Post. Tale rivelazione è uno dei momenti cardine del racconto, quello in cui ci si rende conto, ancora una volta, dei vasti scenari che ci si aprono davanti e dei molteplici grovigli che rendono la mitologia "in giallo" quasi impossibile da sbrogliare.

domenica 20 settembre 2015

Anime dilaniate (Pt.1)

Sylvia C. stava ancora parlando, descriveva i luoghi dove viveva i suoi incubi, lo faceva dolcemente e ineluttabilmente. Barbara fece un respiro profondo e la interruppe. “Va bene. Molto, molto, bene. Adesso, voglio che ti concentri su te stessa in quei luoghi. Chi sei? Hai un nome?" Sylvia esitò. “Cass… Cassilda.” 
Qualcosa nelle profondità inesplorate della sua anima si era rigirata come un coltello nella carne. Cassilda. Una confusa rete di relazioni, di vaghe parentele, di intere dinastie, iniziarono a prendere forma dentro di lei. Avrebbe voluto ricacciare indietro quei pensieri ma le esigenze della sua professione prevedevamo il contrario.“Raccontami della tua famiglia, Cassilda. Dimmi di…” Barbara esitò, abbassando lo sguardo. “Dimmi degli Aldones. È un nome che conosci? È una famiglia?". L’espressione di Sylvia si indurì. “Sì”.“Qual è la sua relazione con te?".“Cugino e usurpatore. Traditore. Poiché era un uomo, aveva invocato per sé il diritto alla successione ma non è sopravvissuto abbastanza per profanare il trono di nostro padre.”. Un sorriso inquietante saettò attraverso il volto della ragazza. “Come premio per la sua ambizione, gli ho inviato il segno giallo”.
Già altre volte, in questa serie di articoli, ci siamo posti la questione di quale sia la reale natura del segno giallo. In un paio di post eravamo arrivati a distinguere due facce dell’elemento: da una parte esso si direbbe essere il simbolo che identifica la dinastia reale a cui la nostra mitologia fa riferimento, dall’altra sarebbe una porta in grado di mettere in comunicazione questo mondo con un mondo alternativo di terrore e di follia. C’è un terzo aspetto che però forse non abbiamo ancora approfondito: il segno giallo sembrerebbe anche essere un messaggero di morte.

mercoledì 16 settembre 2015

Rock Around the Moz

Solo un brevissimo intervento, quello di oggi, per annunciare a questo mondo che il momento tanto agog natoè infine arrivato. Ci ho messo più di due anni per giungere alla meta e, con un po' di pazienza, finalmente la lunga attesa oggi può dirsi terminata. 
Il vostro Obsidian Mirror oggi bussa alla porta del Moz o'clock, prende posto nel suo salotto, si accomoda placidamente sul suo divano (accavallando anche un po' le gambe perché non si sa mai) e si appresta a far fronte alle perfide domande del padrone di casa.
Non so some andrà a finire questa giornata (quasi certamente non bene) ma so per certo che è un grande privilegio essere protagonista della grande iniziativa intervista-blogger ideata dal terribile Mikimoz! A proposito... Chi era quel tizio che diceva che ognuno di noi, nell'arco di una vita, ha a sua disposizione un quarto d'ora di notorietà? Mi pare fosse Andy Warhol, giusto? Beh, non so se il leggendario profeta della pop-art avesse ragione (detto tra noi, quella frase mi è sempre sembrata una pu##anata) ma nel mio caso quel quarto d'ora, minuto più, minuto meno, è davvero arrivato. E voi? Cosa ci fate ancora qui? Correte tutti a leggermi sul Moz o'clock!

domenica 13 settembre 2015

Piccole letture estive

L'estate è ormai abbondantemente alle spalle, come avrete notato. Tecnicamente la stagione si chiuderà, come da calendario, solo fra poco più di una settimana, ma le belle giornate spensierate che ci hanno accompagnato sono ormai solo un fugace ricordo. Il blog è ripartito già da qualche giorno, dopo un abbondante mese di chiusura, e ancora non ho ben oliato i suoi meccanismi. Lentamente riprovo a tornare a regime, cercando di trasformare in qualcosa di concreto tutte le idee che mi sono balenate in testa negli ultimi tempi. Non è per niente facile, visto che gli impegni inesorabili della vita lavorativa incombono e mi succhiano un sacco di energie, forse fin troppe se penso alle mie scarse doti di multitasker.
In questi giorni, proprio mentre questo post si pubblica automaticamente, la mia presenza fisica è molto lontana dalle delizie del blogging: sto trascorrendo il mio tempo a Parma, a causa di una rassegna fieristica alla quale la mia azienda partecipa. Mi ritrovo dietro un banchetto a cercare di gestire una moltitudine assurda di persone, mentre la mia testa è ovviamente altrove. Cercherò di resistere, come ho sempre fatto, cercando da un lato di portare a casa la pagnotta e, dall'altro, di gioire di quelle piccole cose che rendono le giornate interessanti anche quando, teoricamente, non lo sono affatto. La fiera in questione è piuttosto famosa, e, se siete amanti della vita all'aria aperta e delle vacanze "on the road", allora avrete sicuramente già capito di quale manifestazione si tratta. Ma non è di questo che oggi voglio parlarvi.

martedì 8 settembre 2015

Trilogia del terrore

Tra i tanti ricordi più o meno intensi che mi sono rimasti di me stesso bambino ce n'è uno in particolare che credo non mi lascerà mai. Molto di quello che sto per raccontarvi è offuscato dalle nebbie del tempo ma, grazie ad internet, sono ora in grado di mettere delle pezze sui dettagli che nel frattempo si sono volatilizzati dalla mia memoria, come ad esempio quale fosse la data esatta. Era la sera del 7 dicembre 1978, come poi ho scoperto in rete, e di conseguenza il bambino di allora aveva esattamente undici anni. Il mio papà, la mia mamma e io eravamo riuniti nella mia cameretta come ogni sera, perché era in quella stanza che troneggiava il mitico tubo catodico, rigorosamente in bianco e nero, che ci teneva compagnia. Io ero sdraiato nel mio lettino, dal quale riuscivo a scorgere a malapena lo schermo e nel quale spesso finivo per addormentarmi qualunque cosa succedesse attorno a me. Mia mamma era sul divano, un occhio alla televisione e l'altro adagiato sul lavoro a maglia che portava avanti ininterrottamente da un tempo inspiegabile. Mio papà preferiva una scomodissima sedia sulla quale si contorceva in posizioni impossibili ma che, a suo dire, era mille volte più comoda del divano. Pance piene e luci spente perché quella sera, alle venti e quaranta, andava in onda sul secondo canale RAI il tanto atteso episodio della fortunatissima serie di film per la TV intitolata "Sette storie per non dormire".

mercoledì 2 settembre 2015

Orizzonti del reale (Pt.1)

Nella vita prima o poi arriva sempre il momento in cui ci si ferma e ci si interroga sul significato della realtà, della vita e della morte: chi siamo, dove stiamo andando, cosa ci aspetta dopo, eccetera. Vista la mia età anagrafica ho vissuto molte di queste fasi, la prima delle quali (come forse anche per molti di voi) è sopraggiunta quando ero molto giovane, troppo giovane persino per cercare di trovare delle risposte. Parlo di risposte in senso individuale e del tutto arbitrario, naturalmente. A ognuno di noi, nella solitudine della propria coscienza, spetta l’arduo compito di esplorare la religione, la scienza, la filosofia, il mito, il folclore, e poi inevitabilmente di fare i conti con se stesso e ciò che è (e non è) in grado di credere. Ma noi, rispetto agli umani del passato, siamo ben più strani. Ci sono ormai due opposte tendenze, e se da un lato un diffuso realismo tende sempre di più a far diffidare del trascendente, dall’altro aumentano le proposte per aumentare la propria consapevolezza: yoga, meditazione, counceling filosofico, corsi di costellazioni familiari, illuminazione e trasformazione della realtà promettono di aiutarci ad espandere la nostra coscienza e, perché no, a cambiare radicalmente la nostra vita. Un tempo di certe cose ci si occupava nei salotti degli artisti, degli intellettuali e dei filosofi, oppure nei laboratori degli scienziati all’avanguardia, ma le persone comuni erano troppo concentrate sulla vita di tutti giorni, che spesso coincideva con la mera sopravvivenza, per avere il tempo e la voglia di pensarci. Oggi è tutto diverso.

venerdì 28 agosto 2015

Otto; or, Up with Dead People

In una società industrializzata che ha raggiunto un livello d'abbondanza caratterizzato dalla produzione di "beni improduttivi", sofisticati gadget, inutili sprechi, obsolescenza programmata, beni di lusso, eccessive scorte di armamenti, e altro... una certa repressione, oltre quella necessaria alle culture, è imposta al popolo. Il lavoro globale e superfluo sul quale il capitalismo era basato, caratterizzato da una degradante ripetitività, una sorta di condizione "zombie", allontana l'individuo dai suoi bisogni personali e sessuali. Un individuo che opera in una società corrotta, si ritrova lui stesso malato. Nella solitudine, l'individuo "inadatto" può pervenire ad una esteriorizzazione sana a dispetto delle costrizioni e delle esigenze troppo rigorose della cultura dominante. L'idea di concetti di senso comune come "realtà" o "buon senso" in un sistema così nocivo, è assurda. Visto che tutte le idee dominanti sono definite e controllate dalla classe dirigente, la prima cosa da fare per diventare un rivoluzionario è di opporsi a tutte le forme di realtà prestabilita. Chiaramente, essendo senza dimora e credendosi morto, Otto, guidava solitario la sua personale rivoluzione contro la realtà. 
A scanso di equivoci lo dico subito: non era nei miei piani iniziare la nuova stagione scrivendo un articolo di cinema. Nella mia testa (e nelle mie bozze) c’era già il post introduttivo di un progettino al quale io e la mia dolce metà stiamo lavorando. Chi mi segue su Google Plus probabilmente avrà già notato nelle scorse settimane una mezza anteprima, tutt’altro che esplicativa: a loro e a tutti gli altri chiedo quindi ancora qualche giorno di pazienza, dopodiché scopriremo le prime carte della “nuova stagione”.

domenica 23 agosto 2015

Terre di Confine Magazine #4

E così eccoci di nuovo qua! In questa tarda serata di fine agosto riapre i battenti, seppur in punta di piedi, Obsidian Mirror. Molti di voi, i più fortunati, saranno ancora in vacanza. Altri tra voi saranno alle prese con la triste routine delle valigie da disfare. Altri, come me, staranno sognando vacanze che quest'anno sono saltate. Comunque abbiate passato queste ultime settimane, è bello ritrovarvi tutti in questo angolo remoto del web nel quale ci terremo compagnia nei lunghi mesi a venire. Quello di oggi più che un post è una segnalazione, quella della uscita agostiana del nuovo numero di una rivista alla quale sono, come sapete, molto legato. Sono passati dieci mesi abbondanti mesi dall’ultima volta che se ne è parlato (qui) ma nonostante ciò sono certo che la maggior parte dei lettori di Obsidian Mirror se ne ricordano bene. Ebbene, è tornata negli scorsi giorni la rivista TERRE DI CONFINE, di cui potete ammirare qui a lato la nuova, stupenda copertina. Cos’è “Terre di confine”? L’avevo già scritto le volte precedenti, ma vale la pena ripetersi: in primo luogo è un’associazione culturale no-profit che, citando direttamente lo Statuto, “ha come finalità lo studio, la promozione e la diffusione della cultura, delle scienze e dell’arte – quest’ultima con particolare riferimento ai generi letterari Fantascienza e Fantastico e all’Animazione Giapponese – intese sotto ogni loro forma espressiva”. Sempre citando lo Statuto aggiungo che “oggetto d’interesse sono Letteratura, Cinematografia e Televisione, Animazione e Fumetti, Storia e Arte, Costume e Società, Mistero e Paranormale, Scienza e Tecnologia, e, più in generale, tutto ciò che attiene agli obiettivi summenzionati.

venerdì 24 luglio 2015

For those about to blog...

Ed eccoci finalmente giunti al momento tanto atteso. Agosto è alle porte e tra poche righe Obsidian Mirror si congederà da voi. Per la prima volta quest'anno il blog ha deciso di osservare una chiusura estiva. È stata una scelta sofferta, ve lo garantisco, ma necessaria. Sono stanco, fuori ci sono 38 gradi, le forze stanno ormai venendo meno e gli ultimi mesi, come sapete, sono stati per me piuttosto complessi. Riprenderemo le danze verso la fine di agosto, forse addirittura all'inizio di settembre. Vedremo come vanno le cose. Meglio non fare ora previsioni che non sarò magari in grado di rispettare. 
Naturalmente non me ne starò completamente con le mani in mano perché, a differenza che per il blog, non ci saranno vacanze per il blogger: avrò modo di gettare le basi di alcuni nuovi progetti che ho in mente (alcuni già piuttosto delineati) e continuerò a mettere da parte materiale da proporvi comodamente nei mesi che seguiranno. I progetti già iniziati, di conseguenza, continueranno il loro percorso prestabilito. Tra questi, spero di riuscire a dare una bella spinta propulsiva alla serie di articoli dedicati agli Yellow Mythos e, a tale scopo, ho appena finito di realizzare una pagina statica riassuntiva, in modo che nessuno possa dirsi impreparato quando si tornerà sull’argomento. Dal punto di vista grafico tale pagina è veramente il minimo della vita, ma credo che sia comunque in grado di assolvere serenamente al suo scopo. Aggiungo, a beneficio di chi se lo stia chiedendo (immagino pochi), che la nuova pagina statica denominata C.C.C. non è altro che il raggruppamento di tre pagine già da tempo esistenti. Su quel fronte niente di nuovo, quindi.

mercoledì 22 luglio 2015

E.N.D. The Movie

Ogni tanto fa bene parlare di cinema italiano, non credete? Ora che ci penso, qui su questo blog se ne è parlato solo in rare occasioni e, tra l’altro, è stato molto tempo fa. Ricordo vagamente alcuni articoli dedicati al cinema cosiddetto “di genere”, quello impreziosito da nomi di elevato spessore quali Giuliano Montaldo, Antonio Margheriti, Brunello Rondi, Mario Bava, Corrado Farina e Alberto De Martino. Tutta gente alla quale dei miei articoli non importa, o non sarebbe importato, nulla. Tutta gente, quella che ho appena citato, che è stata recensita in lungo e in largo, che è stata studiata, esaminata, presa ad esempio e diffusa come le tavole di Mosè. Ma non è quello il cinema italiano di cui parleremo oggi. Oggi parleremo di un cinema, oltre che più recente, un pochino più invisibile, qualcosa che difficilmente un giorno i nostri figli potranno recuperare e apprezzare, sepolti come saranno da migliaia di proposte mainstream dal contenuto discutibile.
Sarebbe facile iniziare questo post con frasi fatte come “c’era una volta il cinema italiano” o “non siamo più bravi come una volta”. In realtà in frasi del genere c’è tanta superficialità se non, in certi casi, un po’ di ipocrisia. Il cinema italiano esiste ancora, forse ancora di più che negli anni dei Bava e dei Margheriti, per non andare a scomodare per forza gli autori neorealisti o i pionieri dell’anteguerra. Magari a prima vista il nostro cinema non è in perfetta salute, questo è vero, ma esiste un sottobosco estremamente fervido che attende soltanto il momento adatto per poter germogliare, crescere e spalancare al mondo tutti i suoi meravigliosi petali. Succederà mai? Bella domanda.

venerdì 17 luglio 2015

Imomushi, storia di un bruco (Pt.2)

Il tema sessuale, così importante nonostante sia appena accennato nel racconto di Ranpo Edogawa, è reso benissimo nelle tavole del mangaka di culto Suehiro Maruo (autore anche de “Il vampiro che ride”, di “Midori. La ragazza delle camelie”, eccetera): quelle al limite del pornografico che mostrano l’intimità tra marito e moglie (che nell’edizione italiana si è tentato di censurare, senza troppa convinzione, con una sorta di alone che dovrebbe coprire i dettagli anatomici più espliciti), e quelle sottilmente erotiche in cui Tokiko sogna che il suo corpo sovreccitato venga tormentato da miriadi di insetti. La graphic novel di Maruo fu pubblicata in Giappone a puntate nel 2009, e proposta in italiano nel 2012 dalla Coconino Press con il titolo “Il bruco”. 
Nell’opera l’autore riesce nella non facile impresa di dare vita ai sentimenti dei due protagonisti principalmente con il disegno, con tratti che sottolineano le pieghe della bocca, l’espressione degli occhi e la curvatura delle spalle, per esempio, un linguaggio del corpo che dice più di mille parole; e questo non solo perché un dialogo verbale tra marito e moglie non è evidentemente più possibile, ma come emblema della scarsa intimità rimasta (o mai esistita) fra i due. Il risultato è spesso una miscela di poesia e grottesco, sia per il contrasto tra la bellezza e il dettaglio delle tavole e ciò che viene rappresentato, sia perché guardandole non si può fare a meno di guardarsi anche dentro per capire le cause del proprio disagio – perché è indubbio che un disagio lo si avverte. Se certe pratiche tra marito e moglie sono la prassi e la normalità nell’ambito sessuale è soggettiva, cos’è che turba tanto? Non sarà che, intimamente, tendiamo a percepire il sesso come appannaggio delle persone “normali”, di corpi perfetti, o perlomeno sani e… interi?

lunedì 13 luglio 2015

Imomushi, storia di un bruco (Pt.1)

Uscire dai soliti schemi, sfruttare di ogni storia un potenziale che non sia quello più ovvio e immediato sono tutte caratteristiche note di Ranpo Edogawa e forse anche per questo, a cent’anni di distanza, la curiosità per le sue opere è ancora molto viva. Bizzarre e morbose, intrise di violenza quasi sempre psicologica, si prestano tutte molto bene a un certo tipo di cinema. Inutile dire che tutto questo per me è esaltante, perché significa poter esplorare diverse sfumature di queste storie incluse quelle che io da solo, forse, mai saprei cogliere o concepire. È ciò che accade sempre quando si traspone un libro al cinema, lo so, perché per quanto un significato possa sembrare del tutto universale viene sempre filtrato attraverso le nostre soggettività, e perché chi dà forma ai pensieri e alle ossessioni altrui rischia anche di riplasmarli, sostituendoli con i suoi.
Con Edogawa si va anche oltre, perché le sue non sono storie per tutti, e quando allo sguardo atipico dello scrittore si somma lo sguardo altrettanto atipico del regista di turno il risultato non può che essere qualcosa di davvero insolito. Nel bene e nel male. “Imomushi” (芋虫 , in italiano "Il bruco") ha ispirato non solo un film di Koji Wakamatsu, ma anche una graphic novel di Suehiro Maruo, che però sono tanto diversi nello svolgimento e negli intenti da poter essere considerati a tutti gli effetti due storie distinte. Il vero punto in comune, incipit a parte, è che entrambi propongono una riflessione sull'animo umano che vira nel pessimismo più nero.

mercoledì 8 luglio 2015

Volevo solo essere adorata

Sono trascorsi ormai tre anni dalla lettura di quel minuscolo libro che la mia amica e collega blogger Marcella mi donò. Ricordo che da qualche parte arrivai allora a definirlo la cosa migliore che avessi letto quell'anno e, probabilmente, è stato davvero così. Lessi "Volevo solo essere adorata" nel giro di un paio d'ore, praticamente tutto d'un fiato, completamente rapito da quelle parole che si insinuavano dentro di me come se avessero trovato il loro posto nel mondo.
Quando mi risvegliai dall'incanto ricordo che accesi il computer e scrissi quasi di getto alcuni di quei pensieri che mi ronzavano nella mente, per paura che potessero svanire. Quei pensieri scritti si trasformarono poi in un post, una specie di recensione che volli intitolare "Carta velina intinta nella porpora", prendendo a prestito una frase (più che una frase, quasi un'immagine) che avevo letto nel libro. In coda a quel post Marcella rispose anche ad alcune domande che il sottoscritto, curioso all'inverosimile, le aveva posto.
Capì che le sensazioni che "Volevo essere adorata" mi aveva trasmesso non erano affatto campate in aria, capì che c'era una specie di, come dire, sintonia tra scrittore e lettore. Capì infine che le mia interpretazione del testo (un testo molto personale, come capirete se avrete la bontà di leggerlo) era perfettamente azzeccata, al punto che quando ne sottoposi l'anteprima a Marcella lei mi rispose via mail: "Ma mi conosci?". Ovviamente non la conoscevo, ma ero contento di essere riuscito in qualche modo a... scardinare una porta segreta.

venerdì 3 luglio 2015

Planetary Confinement

Save me, I'm in a sea of beings and there's no deny - the waves are holding me under. I'm drowning in a thousand faces. Alien expressions over and over again. I'm trying to scream but I can't exhale. The world seems to spin as I'm left on this square with no will to hold on. Am I the only one crushed by the weight of the world?
In qualche modo la vita deve andare avanti, e con essa il blog. Resta solo da affrontare la questione sul quale possa essere il modo migliore per ritornare a bloggare normalmente dopo la recente, dolorosa, scomparsa della Dori e, dopo una breve riflessione, ho deciso di andare a vedere cosa feci due anni e mezzo fa quando a lasciare questa casa fu Elvis.
A quel tempo il post del ritorno fu una specie di recensione di un disco di una tristezza infinita: l'album "Lights Out" della band britannica Antimatter. Di conseguenza, anche oggi sarà un album della stessa band ad aiutarmi a riportare questo blog sui suoi binari tradizionali. Tanto più che il suo mood, come si evince da quel bollino tondo applicato sulla cover (vedere immagine a lato), non si discosta moltissimo dal mio stato d'animo ancora ferito.

domenica 28 giugno 2015

Epitaph

Mamma, papà, quanto mi mancate. Da quassù vi vedo sapete? Vi vedo piangere tutto il giorno e anch’io piango per voi. Qui attorno è tutto un mondo nuovo e io non ci sono abituata. Mamma, papà… è successo qualcosa che non ho ben capito, non so cosa sia stato ma dentro di me era già un po’ di tempo che sentivo che qualcosa mi avrebbe trascinata via dai miei piccoli riti quotidiani.
Sarebbe stato troppo bello se la nostra esistenza in comune fosse durata in eterno. Vorrei tornare da te, mamma. Vorrei tornare a giocare con te, papà. Ma non ci riesco.

mercoledì 24 giugno 2015

Ciao 'tata

Tata. Abbreviazione di patata. Tanto era patato il tuo fratellone Elvis, tanto eri riuscita a farti patata anche tu, amore mio. Non posso credere che non ci sei più. Il mio cuore sanguina incessantemente. Una fitta insopportabile, come se una mano invisibile mi pugnalasse ripetutamente il petto con tutte le sue forze. Mi manca il respiro. Mi manca la terra sotto i piedi. Mi manca un senso da dare a queste giornate, un senso da dare a questa vita che dovrò trascorrere senza di te, tesorino mio.
Non pensavo di dover dedicare anche a te parole come quelle che scrissi per Elvis tre anni fa. Non lo avrei mai pensato. Non avrei pensato che accadesse così presto. Eri così giovane, così piena di vita. Non è giusto. Non è giusto.
Eppure all’improvviso il tuo piccolo cuoricino si è fermato, senza una ragione. Come è potuto succedere? Forse è stato perché eri troppo buona. Si dice che gli angeli chiamino presto a sé le anime troppo buone, perché il mondo terreno non le merita. Tu, che non avevi nemmeno sei anni, eri così traboccante d’amore… forse gli angeli ti hanno chiamata. Forse.

domenica 21 giugno 2015

Do I love Beijing?

Si parla raramente della Repubblica Popolare Cinese su questo blog, lo avevate notato? Spesso ci siamo avventurati ad esplorare culture asiatiche di tutti i tipi, in primo luogo Giappone e Corea, ma in quattro anni non ci siamo mai fermati nel paese che forse più di ogni altro rappresenta il continente a cui appartiene. Lo facciamo oggi sull'onda di un'idea della collega blogger Alessandra di Director's Cult, la quale mi ha fatto notare che il mese scorso al Metropolitan di New York è stata presentata l'anteprima di una mostra dal titolo Cina: Through the Looking Glass curata dal regista Wong Kar-Wai. Nella presentazione dell'evento si è voluta sottolineare l'importanza dell'estetica cinese nelle creazioni di moda occidentali. Grazie alla sua arte, dai dipinti alle porcellane sino ai costumi tradizionali, la Cina avrebbe alimentato, secondo il curatore della mostra, la fantasia dei nostri stilisti, da Paul Poiret a Yves Saint Laurent. Aperta fino alla metà del mese di agosto, la mostra presenta oltre 140 esempi di Haute-Couture e di Prêt-à-porter accanto a fulgidi esempi di arte cinese. In questo stesso contesto sono stati inoltre inseriti alcuni spezzoni di vecchi film cinesi che rivelerebbero, sottolineando nuovamente il medesimo concetto, l'enorme importanza che il mezzo cinematografico avrebbe avuto in questo ruolo. Possiamo essere d'accordo o meno con questo assunto, ma l'occasione è ghiotta, per questo blog, per fare una piccola digressione sulla Cina e sulle sue evidenti contraddizioni.

lunedì 15 giugno 2015

Misterico? Esoterico? MozAward!

Ecco qualcosa che proprio non mi aspettavo. The Obsidian Mirror oggi è stato insignito del Moz Award 2015 nella categoria "miglior blog misterico-esoterico", dedicato a "quei blog che propongono analisi su argomenti esoterici, misteriosi o anche bizzarri". Di cosa si tratta è presto detto. Lo spiegherò in poche righe a beneficio dei pochi che non conoscono il Moz o'clock. Dovete sapere che a pochi click da qui esiste un Moz o'clock, uno spazio web di "cultura pop a 360°“, gestito da un certo MikiMoz, che un paio di settimane fa ha lanciato in rete l'edizione 2015 dei Moz Awards, invitando tutti i suoi lettori ad esprimere una preferenza. Esattamente come nei nei più celebri (ma meno interessanti) awards libreschi o cinematografici, ciascun lettore è stato invitato a votare il (per lui) miglior blog di categoria, vale a dire il migliore che tratti di cucina, piuttosto che di cinema, di moda, di letteratura, di poesia, eccetera eccetera.

giovedì 11 giugno 2015

Quando il Conte muore...

3 maggio, Bistrita. Lasciata Monaco alle 20,35 del 1° maggio, giunto a Vienna il mattino dopo presto: saremmo dovuti arrivare alle 6,46, ma il treno aveva un'ora di ritardo. Stando al poco che ho potuto vederne dal treno e percorrendone brevemente le strade di Budapest mi sembra una bellissima città. Non ho osato allontanarmi troppo dalla stazione, poiché, giunti in ritardo, saremmo però ripartiti quanto più possibile in orario. Ne ho ricavato l'impressione che, abbandonato l'Occidente, stessimo entrando nell'Oriente, e infatti anche il più occidentale degli splendidi porti sul Danubio, che qui è maestosamente ampio e profondo, ci richiamava alle tradizioni della dominazione turca.
Scusate. Non ho saputo resistere alla tentazione di iniziare questo post inserendo uno degli incipit più famosi della letteratura gotica. 
Oggi è un giorno di lutto. Lo avrete già saputo. Muore a Londra, alla veneranda età di 93 anni, Christopher Lee, l'uomo che più di ogni altro ha saputo rendere sullo schermo la figura del celebre vampiro di Stoker. Qualcuno potrebbe obiettare che il "vero" Dracula fu quello caratterizzato da Bela Lugosi (Dracula, 1931), qualcun altro invece potrebbe preferire il volto di Klaus Kinski (Nosferatu, 1979) o quello di Max Schreck (Nosferatu, 1922), ma resta fuori questione che, con ben dodici "Dracula" nella sua filmografia, Christopher Lee è stato (e sarà per sempre) l'uomo il cui volto più facilmente si confonde con quello, immaginario, del principe dei non-morti.

martedì 9 giugno 2015

La canzone di Cassilda (Pt.3)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI
ATTO I - SCENA III: CASSANDRA

Alessia H.V., 'La Perduta Carcosa', digital, 2015
 http://alessiahv.deviantart.com/
“Io stesso sono la maschera, la maschera pallida. Io sono il fantasma della verità. Provengo da Alar. La mia stella è Aldebaran. Le verità è una nostra invenzione, la nostra arma in battaglia. E il segno giallo…” (1)
Non credeva ai suoi occhi. Da quando il suo ragazzo, sette mesi prima, se n’era andato di casa senza una parola, Cassandra aveva cercato in tutti i modi di comprendere il significato di quell'ultimo post che egli aveva pubblicato sul proprio blog. Era un post strano, diverso dai suoi soliti, un post a cui nessuno aveva mai, prima di quella notte, lasciato un commento. Parlava di cose che lei non comprendeva, parlava di persone che lei non conosceva. Yog-Sothoth, R'lyeh, Nyarlathotep, dove le aveva già sentite? Camilla, Cassilda, chi erano costoro? Era evidente che c’era qualcosa (qualcuno?) nella sua vita che, chissà da quanto tempo, egli le aveva tenuto nascosto.
Quella notte invece qualcuno, su quel post, aveva infine lasciato un commento anonimo, un commento tutt’altro che banale. Sembrava proprio il commento di qualcuno che conoscesse esattamente la materia di cui parlava.
Cassandra aveva speso giorni e notti davanti al computer, cercando in rete qualsiasi collegamento a quei nomi e alle misteriose parole di quel post, parole che dovevano in qualche modo contenere le risposte alle sue domande, se solo le avesse comprese, ma non aveva mai trovato nulla di veramente utile, se non vaghi rimandi a una certa letteratura horror risalente ad oltre un secolo prima, un tipo di letteratura che aveva sempre considerato superflua ma che forse in futuro avrebbe fatto meglio a conoscere.

giovedì 4 giugno 2015

The Adventure of the Yellow Sign

Cercami là dove la morte spesso risiede, nelle tenebre mai toccate dal sorgere dei soli, là dove dimorano le ombre nella cupa Carcosa. La corona d’oro e le vesti gialle del re brillano ancora più dell’astro calante, che affonda e muore nell’oscura Carcosa. E qui, se vi sarete uniti a me, dove il lago di Hali incontra il mare, faremo luce sul mistero della perduta Carcosa. Il Re in Giallo è risorto, il mondo è iniziato così che possa finire, nei sospiri e nei pianti, là nella temuta Carcosa 
Uno strano glifo è entrato in scena per la prima volta qualche mese fa, un glifo la cui importanza, ai fini della comprensione dei vasti scenari che lentamente si stanno svelando, è a dir poco fondamentale. Nel racconto “The Yellow Sign” esso veniva descritto come “Un fermaglio di onice nera, su cui era intarsiato un curioso simbolo, forse una lettera, in oro. Non era né arabo né cinese, né, come avrei scoperto in seguito, apparteneva a qualsivoglia lingua umana.” Avevamo distinto due facce dell’elemento che oggi conosciamo come “segno giallo”: da una parte esso si direbbe essere il simbolo che identifica la dinastia reale a cui la nostra mitologia fa riferimento, dall’altra parte sembra essere l’ennesima porta che mette in comunicazione questo mondo con un mondo alternativo di terrore e di follia. Si direbbe che chiunque venga in contatto, anche per caso, con il segno giallo sia suscettibile di una qualche forma di controllo mentale, probabilmente da parte di un’entità che, semplificando, potremmo identificare come il Re in Giallo. Non è forse un caso se, nel racconto di cui parleremo oggi, si farà più volte riferimento all'homunculus, la leggendaria figura alchemica citata da Paracelso, che richiama alla mente numerosi personaggi del fantastico e dell'immaginario, dall'antropomorfo Golem della tradizione ebraica, al mito greco di Galatea e Pigmalione, sino al mostro di Frankenstein di Mary Shelley.

sabato 30 maggio 2015

William Buehler Seabrook (Pt.2)

Nel 1929 William Buehler Seabrook cominciò un lungo viaggio che dalla Costa D'Avorio lo portò oltre diecimila chilometri più in là, a est di Timbuktu, nelle terre natie del semisconosciuto e misterioso popolo degli Habbe. Durante questo periodo, com'era sua abitudine, Seabrook si mischiò alle popolazioni locali, vivendo nei loro villaggi e, ove possibile, imparandone le lingue e i dialetti. Le sue esperienze in Africa sono raccontate nei libri “Jungle Ways” del 1931 e “The White Monk of Timbuctoo” del 1934. Nel primo, in particolare, dopo una prima parte che segna una vera e propria immersione nella natura e nella magia primitiva di quei luoghi, viene descritto il suo incontro con la tribù dei Guéré, un'etnia del popolo dei Wé che era dedita a pratiche stregonesche e al cannibalismo.
Si trattava di una forma di cannibalismo rituale praticata nei confronti dei nemici uccisi in guerra per cui i vincitori si cibavano del cuore e dei genitali dei vinti per acquisire la loro forza e la loro virilità, e che in senso metaforico sopravvive ancora oggi nella definizione dei maghi come "mangiatori di anime”, oltre che nel nome stesso della tribù (guéré significa proprio mangiare, fagocitare). Non si trattava certo di eventi straordinari né per l'epoca né per la collocazione geografica, sebbene con una risonanza nemmeno lontanamente paragonabile a quella, ad esempio, di analoghe pratiche del passato remoto - come i sacrifici religiosi aztechi che, chissà perché, sono avvolti da un’aura quasi mistica. Comunque, pare che Seabrook avesse domandato al capo villaggio che gusto avesse la carne umana ma fosse rimasto insoddisfatto della risposta, e così, recatosi a Parigi, qualche tempo dopo, fosse riuscito a procurarsi tramite lo stagista di un ospedale delle sezioni di un corpo umano appartenute ad una persona appena perita in un incidente. Una parte della carne la consumò col riso, a mo’ di stufato, l’altra la cucinò come una bistecca, e poi riferì che per consistenza, colore, odore e gusto somigliava in tutto per tutto a carne di vitello (It was like good, fully developed veal, not young, but not yet beef.). Altra sinistra fama gli derivò dalla sua amicizia con l’occultista inglese Aleister Crowley, documentata fra l’altro nell'opera (di Seabrook) “Witchcraft: Its Power in the World Today”.

lunedì 25 maggio 2015

William Buehler Seabrook (Pt.1)

William Buehler Seabrook (1884-1945) è stato uno dei personaggi più controversi vissuti a cavallo fra il XIX e il XX secolo, un giornalista arguto ma, soprattutto, una sorta di moderno Marco Polo i cui resoconti di viaggio ebbero un incredibile successo e sono tuttora oggetto di culto.
Amante dell'avventura, curioso fino all'estremo, Seabrook incarnava il tipico, irriducibile avventuriero che, per pura sete di conoscenza, sfidava il pericolo e oltrepassava (poi vedremo meglio come) i limiti tra normale e a-normale, lecito e illecito.
Seabrook fu inoltre uno sfrenato edonista. Alcolista, consumatore abituale di alcol e droghe, sadico che (leggenda narra) non si separava da frustini e catene nemmeno quando viaggiava, fu anche un essere umano dalle molte ombre. Senza per forza volerne fare un’apologia, ma nemmeno demonizzarlo, non posso negare che ammiro il suo spirito inquieto e indomito ed è proprio questo che oggi, a quasi settant’anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel 1945, voglio ricordare.
Il nostro nacque nel 1884 nel Maryland, a Westminster e, se si eccettua una parentesi come pubblicitario e una come guidatore di ambulanze nell’esercito americano di stanza in Francia durante la Prima Guerra Mondiale (che gli valse una medaglia), si occupò sempre di giornalismo, dapprima come caporedattore dell’Augusta Chronicle e poi come giornalista presso il New York Times. I suoi racconti di viaggio venivano telegrafati in patria a riviste come Vanity Fair, Cosmopolitan e il Reader's Digest e poi venivano raccolti in volumi che, immancabilmente, diventavano dei best seller.

mercoledì 20 maggio 2015

Vita e morte di Jorge Riosse (Pt.2)

Siamo all’incirca a metà degli anni Ottanta quando la signora Rosa Elena Carvajal prende come affittuario nella sua casa nella colonia Nuova Anzures un giovane sulla ventina, di bell’aspetto, che si sistema in una camera al piano superiore e più tardi si trasferirà nel minuscolo sottotetto per "essere più vicino al cielo".
L’uomo si fa chiamare Jorge Riosse e, occasionalmente, Jorge Riossen, Jorge Cariño o Jorge Rossemberg, ma il suo vero cognome (come scoprirà poi leggendolo sul certificato di morte) è Rios Sanchez.
Il giovane non parla mai del suo passato e sembra tormentato nel profondo: fa discorsi sconclusionati, scompare e riappare spesso nel cuore della notte e saltuariamente lo avvistano sul Paseo de la Reforma mentre, truccato e vestito da donna, sembra intento ad adescare giovani uomini, non sembra avere un lavoro ma ha l’armadio pieno di vestiti griffati, eppure nessuna di queste stranezze allarma Doña Rosita che, anzi, rimane affascinata dalla sua carismatica personalità, così come tutti coloro che nel corso della sua lunga permanenza presso la donna hanno l’occasione di conoscerlo. Del resto, Jorge ha grande immaginazione e grande talento: canta, suona la chitarra, scrive e dipinge meravigliosamente ed è poliglotta. Se non proprio amici, Jorge e Rosa diventano abbastanza intimi, quasi come dei parenti. Pochi anni dopo, nei primi anni ’90, un assassino seriale comincia a mietere vittime nel Distretto Federale: tra il settembre del 1991 e l’aprile del 1993 un totale di 13 donne, tutte prostitute e comprese tra i 25 e i 38 anni, vengono assalite selvaggiamente e uccise in camere d’albergo situate in pieno centro città. I corpi vengono trovati sotto il letto, in genere coperti da un lenzuolo, e l’assassino usa il rossetto delle vittime per lasciare enigmatici messaggi sugli specchi.
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