mercoledì 5 novembre 2014

Twin Visions (Pt.1)

Nascere nella stessa famiglia è come condividere una corsa in autobus, un viaggio a tappe in cui prima o poi ci si ritrova a percorrere parte del tragitto da soli perché ognuno, arrivata la propria fermata, scende e mette della distanza tra sé e gli altri. A volte si tratta di pochi chilometri, a volte di una distanza che pare abissale, ma sempre ci si porta dietro qualcosa di intangibile e indelebile: il legame del proprio DNA. Nascere dallo stesso utero vuol dire avere gli stessi geni, le stesse opportunità, ma tutto questo poi la vita lo plasma in modi spesso imprevedibili. E Jerome Witkin, considerato da molti il più grande pittore figurativo vivente, e Joel-Peter Witkin, il fotografo icona del weird, sono più che fratelli: sono gemelli omozigoti. Il tempo trascorso dall’inizio della loro longeva e straordinaria carriera è testimone che entrambi, in qualche modo, hanno sviluppato una visione artistica inquieta(nte) e originale che non può che derivare dalle comuni radici.
È proprio questo che la mostra “Twin Visions”, inaugurata il primo marzo di quest'anno presso la galleria Jack Rutberg Fine Arts di Los Angeles, ha voluto celebrare. Si è trattato di un evento più unico che raro, dato che i due fratelli non avevano mai esposto nello stesso luogo simultaneamente. Il video di presentazione, se vi interessa, lo trovate in fondo a questa prima parte dell'articolo.

Ormai le scelte di una vita intera e molti chilometri li separano, eppure sia Joel-Peter che Jerome Witkin sono in grado di creare opere potenti, psicologicamente evocative e disturbanti, immagini che, dopo averle viste una volta, è impossibile dimenticare. Quelle immagini cui danno forma sono già lì, nel nostro subconscio, sotto forma di dolore inespresso per ciò che abbiamo perso, della paura del futuro con i nuovi e inevitabili lutti che ha in serbo per noi, del peso della realtà ma anche dell'amore e la meraviglia per la vita. La cosa divertente è che, fino a poco tempo fa, non avevo realizzato la parentela che intercorre fra loro… Ma una volta fatto questo, è come se davanti a me si fosse spalancato un universo incredibilmente affascinante, nel quale tracciare un parallelismo tra le loro tematiche di fondo è stato semplice e immediato.
Questo punto in comune è soprattutto la rappresentazione della morte e della caducità della vita, e non solo per l'ovvio assunto che sia la pittura che la fotografia sono il linguaggio della morte. Non si può prescindere dalla loro biografia, da quell'infanzia segnata dalle scissioni (in ogni senso possibile), dal distacco e dal rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e non è stato.

Jerome Witkin, Are you here?
Prima di diventare gli artisti affermati che noi conosciamo, i due fratelli sono stati, molto semplicemente, gli ultimi nati in una famiglia atipica e disfunzionale. Quando vennero al mondo, il 13 settembre 1939 a Brooklyn, New York, i genitori avevano già una figlia, Sara, ma le liti tra di loro erano all’ordine del giorno e sfociarono in un prematuro divorzio. Il padre Max Witkin, di origini russe, lasciò la casa di famiglia, si risposò e quasi sparì dalla vita dei suoi figli: lo si vedeva sporadicamente, una volta al mese, quando l’uomo consegnava alla ex moglie l’assegno di mantenimento. Era ebreo, ma la cosa non avrebbe avuto influenza sui suoi figli (o almeno su uno di loro) che in futuro: la madre, Mary Pellegrino, li crebbe nella sua religione, il cattolicesimo. Purtroppo Max Witkin aveva una personalità complessa, per molti versi tragica: due volte divorziato e per due volte sull'orlo della bancarotta, un giorno (all'epoca i suoi figli frequentavano il liceo) decise di farla finita gettandosi dal tetto di un edificio. Fortunosamente non morì, ma si ferì seriamente ad una gamba e, non potendo più lavorare, divenne un senzatetto e visse sette anni per la strada. E per la strada quest'uomo sconfitto dalla vita, durante la quale aveva collezionato quasi solo fallimenti, morì, ucciso da ignoti mentre lo rapinavano. Aveva cinquant'anni. Questa instabilità sembra avere contagiato soprattutto suo figlio Jerome, che si è sposato tre volte e la cui vita non sembra proprio un esempio di serenità e di... continuità.

Jerome, a seguito della morte del padre, visse un periodo di profonda crisi, e fu la fascinazione per la religione che lo salvò, insieme alla consapevolezza di aver ricevuto un dono che sentiva l’obbligo morale di mettere a frutto: il suo talento per la pittura, talento che venne a galla quando aveva appena quattordici anni (forse la prima e unica occasione in cui si dimostrò più precoce del fratello). Dalla High School of Music and Art di New York alle borse di studio per altre scuole, fino alla University of Pennsylvania, la sua carriera scolastica fu molto brillante, ma senza dubbio sulla sua formazione come pittore incise sopra ogni cosa il lungo “pellegrinaggio artistico” fatto in giro per l'Europa, Italia inclusa, reso possibile dalla vincita del premio Pulitzer Traveling Fellowship. Vedere dal vivo le opere di maestri come Rembrandt o Caravaggio, come tuttora non manca di ricordare, fu importantissimo per lui, e ancor di più lo fu - come artista e come essere umano - visitare Auschwitz, Berlino, la casa di Anne Frank e altri luoghi simbolo della storia. Oggi Jerome Witkin vive e lavora a Syracuse, nello stato di New York, da quando, nel 1971, accettò una cattedra di professore di arte alla Syracuse University, e i suoi quadri sono esposti in musei prestigiosi come il Metropolitan Museum of Art di New York e il Museo degli Uffizi, tanto per citarne un paio. È un peccato che per lui la vera consacrazione, quella del vasto pubblico, non sia ancora arrivata, ma credo anche che ormai la cosa abbia ben poca importanza: le sue opere parlano per lui. Se il talento di suo fratello Joel-Peter, sbocciato tra l’altro più tardi, sembra averlo surclassato, questo non riguarda certo le vette espressive raggiunte dalla sua arte, ma soltanto il loro aspetto contingente, la fama: nel mondo dell'arte la sua importanza è indiscussa, come testimoniano le molte onorificenze che gli sono state attribuite.

Joel-Peter Witkin, Portrait of a dwarf
Joel-Peter Witkin era il ribelle di casa, il figlio scapestrato, quello che dei due cercava la novità e l’avventura e che, finito il liceo alla Grover Cleveland High School, trascorse tre lunghi anni in Vietnam (tra il 1961 e il ’64) come fotoreporter di guerra. Tornato in patria, studiò scultura alla Cooper Union School di New York per poi terminare gli studi alla Columbia University e in seguito, grazie a una borsa di studio, presso la University of New Mexico di Albuquerque. Nel 1976 ottenne il Master of Arts in fotografia e poi cominciò la sua attività di fotografo freelance. Suo figlio Kerson, come lo zio, è pittore e possiamo dire che ciò chiude in un certo senso il cerchio: questa evidente predisposizione all'arte all'interno della stessa famiglia è una riprova del fatto che il talento è scritto nel DNA. Joel-Peter vive ancora ad Albuquerque, lì nel “profondo sud” dove l’ironia e la leggerezza permeano qualunque cosa, perfino la morte. Le sue fotografie ormai da molto tempo sono entrate a far parte a pieno titolo delle esibizioni permanenti di diversi e famosi musei (come il MOMA, il Getty e il Centre Georges Pompidou, solo per fare un esempio). Nel corso degli anni è stato insignito di molte onorificenze e le sue esposizioni nazionali e internazionali sono sempre molto attese, sia che si tratti di mostre collettive che di personali (una delle quali si è tenuta nel 2007 su suolo italico, nel Palazzo Mediceo di Seravezza, in provincia di Lucca).

Di primo acchito non sembrerebbe esserci molto in comune fra i due fratelli; se Joel-Peter ha fatto della provocazione il suo marchio di fabbrica, ritraendo la devianza in tutte le sue forme (fisica, sessuale, psicologica), l’anomalia, la morte, con modalità che non pochi giudicano a metà tra l’iconoclastia e il cattivo gusto, per Jerome dipingere soggetti dalla valenza sociale o politica spesso, se non sempre, si ammanta di un qualche tipo di sentimento o simbolismo religioso, in quella che è (dichiaratamente) una personale ricerca di Dio. Se il senso del macabro dell’uno e del sacro dell’altro sembrano essere agli antipodi, potrebbe trattarsi invece di due facce della stessa medaglia.


9 commenti:

  1. Alla fine è l' ennesima dimostrazione che l' amore per l' arte può salvare o quanto meno instradare delle vite.

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    1. Hai ragione. Questo è decisamente un o dei motivi che vale la pena sottolineare. Non ci sono abbastanza scuse per non pensare di cambiare la propria vita, quando non è quella giusta.

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  2. Visto anche il video. Il fotografo me lo sento più vicino come estetica rispetto al pittore. Curioso del seguito della storia...

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    1. Il fotografo ci mostrerà diverse cose interessanti (e se hai visto il video qualcosa dovresti avere già intuito). Vediamo se alla fine il pittore avrà recuperato dei punti.

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  3. Non li conoscevo onestamente!
    Farò una piccola ricerca 'ad immagini' su di loro e attendo il prossimo articolo!

    Oltre al dna sono anche le esperienze comuni che spesso forgiano espressioni simili o totalmente differenti, a loro è mancata qualcosa che hanno provato a risolvere nella ricerca di due 'obiettivi' differenti e inclini ai loro spiriti. Uno scende dentro la scissione - il fotografo - mentre il pittore cerca l'ascensione, la purificazione dalla stessa, o almeno questo mi pare di capire dalla descrizione che ne fai!
    Vedrò le opere così mi faccio un'idea più completa!

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    1. Fantastico! Hai colto esattamente ciò che intendevo esprimere! La ricerca per immagini a quest'ora ti avrà forse dato ulteriori indizi su ciò che seguirà in questa serie di post (la seconda parte è già domani).

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  4. Mi sembra un post un po' diverso dai tuoi soliti. Bello ampliare i confini, no? :)

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    1. Sono argomenti di cui scrivo meno spesso perché sono molto complessi da realizzare (e parecchio "time consuming")... ma il bello di un blog multitematico è proprio quello di poter variare...

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  5. Ho curiosato nel web alla ricerca di immagini: le opere di entrambi sono un bel pugno nello stomaco, ma principalmente per quello che trasmettono, non tanto per ciò che raffigurano!
    Direi che smuovono profondamente le coscienze, almeno a me fanno questo effetto.
    Bellissimo post!

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