domenica 31 marzo 2013

Easter (we shall live again)

“I am the spring, the holy ground, the endless seed of mystery, the thorn, the veil, the face of grace, the brazen image, the thief of sleep, the ambassador of dreams, the prince of peace. I am the sword, the wound, the stain. Scorned transfigured child of Cain. I rend, I end, I return. Again I am the salt, the bitter laugh. I am the gas in a womb of light, the evening star, the ball of sight that leads that sheds the tears of Christ dying and drying as I rise tonight." cantava una giovane artista newyorkese nel lontano 1978. Quale migliore occasione del giorno di Pasqua, quindi, per riproporre, a 35 anni di distanza, quegli intramontabili versi? Era da un po’ che mi prudeva sotto i polpastrelli la voglia di scrivere qualcosa su un grande classico del rock. Il dubbio era cosa scrivere, di chi scrivere e soprattutto come riuscire ad essere originali scrivendo di qualcosa di cui hanno già scritto tutti. Non so dire cosa alla fine verrà fuori da questo post che ho appena iniziato: probabilmente poco o nulla di interessante, poco o nulla in grado di trattenere i miei occasionali lettori per poco più di qualche secondo, prima di cliccare su un link a caso e prendere il volo verso altri lidi. 

martedì 26 marzo 2013

Riflessioni (Pt.2)

Nel celeberrimo film “L’occhio che uccide” (Peeping Tom, 1960), un assassino uccide le sue vittime con una telecamera, sulla quale ha installato una lama retrattile, mentre le riprende, costringendole ad osservarsi in uno specchio per vedere il proprio volto contratto dalla paura. Questo gesto simboleggia da un lato il voyeurismo insito del cinema, dall’altro il suo potere, e l’associazione dello scatto fotografico al gesto omicida, concetto che si rifà alle credenze popolari  menzionate prima ed è ancora più calzante nel caso del cinema, a causa della maggiore invadenza della telecamera rispetto ad una macchina fotografica. L’essenza del film sta tutta nella frase “Tutto quello che riprendo, per me è perduto…” pronunciata dal protagonista.
In “Come in uno specchio” (Säsom i en spegel, Ingmar Bergman, 1961) si fa riferimento all’idea che lo specchio rappresenti per antonomasia la maschera, l'apparenza, e, per esteso, la doppiezza umana. Un’isola del Mar Baltico fa da scenario alla vacanza da incubo di Karin e della sua famiglia: il marito medico, il padre scrittore e il fratello minore. Il film affronta molti temi drammatici come le dinamiche familiari, le finalità della scienza e dell'arte, l'incesto, ma soprattutto la malattia e la spiritualità. Perché Karin è schizofrenica e ossessionata dalla ricerca di Dio, che crede fermamente le si rivelerà per unirsi a lei e diventare un tutt'uno con lei, e alterna l’esaltazione mistica e allucinatoria a periodi di lucidità durante i quali sembra dominata dall’odio; ma quando infine ottiene la tanto agognata rivelazione, Dio le appare come un essere ripugnante, mostruoso, che cerca di possederla.

venerdì 22 marzo 2013

Riflessioni (Pt.1)

“C’era una volta un re, seduto sul sofà, che chiese alla sua serva: “Raccontami una storia”, e la serva incominciò: “C’era una volta un re, seduto sul sofà, che chiese alla sua serva: “Raccontami una storia”, e la serva incominciò...”
Questa storiella è stata un vero e proprio tormentone della mia infanzia. La conoscete? Sono certo che ne esistono molte varianti, ma la solfa è la medesima. Tutte le volte che la sera, prima di dormire, chiedevo a mia madre di raccontarmi una fiaba e lei non ne aveva voglia, intonava questa litania con il preciso intento di farmi annoiare in meno di due minuti. Ora che sono adulto capisco che non era cattiveria, la sua, che forse quelle volte era solo troppo stanca per dedicarmi più di quei due minuti, e ci rido su, ma all'epoca mi arrabbiavo molto. Anzi, mi infuriavo proprio! E lei a sua volta fingeva di mettere il muso, dicendomi che la storia prevista quella sera era quella e se non mi andava bene non me ne avrebbe raccontata nessun’altra, e poi ne approfittava per spegnere la luce e defilarsi, lasciandomi da solo nel mio letto a smaltire il nervoso.
Alla storiella della serva e del re non pensavo ormai da moltissimi anni, e quando l’ho fatto mi ha colto, improvvisamente, la consapevolezza che la sua struttura a scatole cinesi si fonda su una serie di rimandi che si autoalimentano virtualmente all’infinito, come in un gioco di specchi. Una versione meno colta, e semplificata, dei racconti de “Le mille e una notte”…

lunedì 18 marzo 2013

Colui che non ritorna

Era quasi il tramonto, faceva caldo sulla via Emilia che Ruggero percorreva in calesse per tornare a casa, a San Mauro di Romagna, dove la moglie Caterina lo attendeva. Era un sabato di agosto del 1867 e Ruggero stava facendo ritorno dal mercato di Cesena dove avrebbe dovuto incontrare un fantomatico signor Achille, funzionario dei principi Torlonia, proprietari della tenuta “La Torre”, un latifondo di cui l’uomo era amministratore e presso il quale viveva con la sua famiglia. Il signor Achille, chiunque egli fosse, non si era presentato all’appuntamento, e solo verso le sei del pomeriggio Ruggero, arresosi all’evidenza, decise di rientrare. 
Ruggero, nato nel 1815, era diventato amministratore del latifondo nel 1855, dopo la scomparsa prematura del cugino che rivestiva quel ruolo prima di lui, e nel 1867 erano quindi dodici anni che svolgeva quell’incarico. In veste di amministratore della “Torre” era noto e stimato per lo zelo, lo scrupolo e l’onestà con cui adempiva alle sue mansioni. Quando si mise sulla via del ritorno, Ruggero non sapeva ancora che non avrebbe mai più rivisto l’amata moglie e i suoi otto figli Margherita, Giacomo, Luigi, Giovanni, Raffaele, Giuseppe, Ida e Maria.
La cavalla trotterellava pacatamente lungo la strada di casa. Era una cavalla minuta in confronto ai grossi cavalli normanni usati per il lavoro nei campi, ed era l’unica ad avere il mantello grigio scuro, colore degli uccelli storni. Ruggero aveva con lei un rapporto che andava oltre il semplice rapporto tra uomo e animale: le era molto affezionato e la cavalla ricambiava il suo affetto come poteva, trainando il calesse e affrontando imperturbabile anche grandi distanze.

mercoledì 13 marzo 2013

La dama verde di Caerphilly

Ai miei lettori più attenti non sarà sicuramente sfuggito il dettaglio che Caerphilly, la location del racconto apparso qui nei giorni scorsi, era già stata citata in passato su questo blog. A beneficio di coloro che non se ne ricordano, il mio invito è quello di dare un’occhiata alle fotografie da me scattate e pubblicate, ormai più di un anno fa, nella sezione “Castelli”.
Sì, perché Caerphilly esiste davvero e così il suo castello il quale, persi i fasti del XII secolo, rimane tuttavia indiscutibilmente uno dei più affascinanti di tutta la Gran Bretagna.
Ho visitato il castello di Caerphilly nell’estate del 2010 sulle tracce della leggendaria figura della dama verde, la cui anima senza pace continua, da otto secoli a questa parte, a commuovere i suoi concittadini e ad incuriosire i viandanti. Come potevo io resistere al suo richiamo? Quelle giornate furono poche, ma intense: in una settimana percorsi circa duemila chilometri, in lungo e in largo, alla ricerca di chiese, castelli e cimiteri, tutti rigorosamente “haunted”. Detto tra noi, non è che sia molto difficile trovare un luogo in Inghilterra che non sia legato alla presenza di fantasma: c’è la strada infestata, il pub infestato e pure l’hotel infestato (leggi qui)… non saprei dire con certezza quante di queste infestazioni siano reali e quante invece siano semplici trovate pubblicitarie: sta di fatto che, nell’uno o nell’altro caso, io ne finisco inevitabilmente attratto come un orso dal miele.

venerdì 8 marzo 2013

Caerphilly Tales

Ci sono storie d’amore che durano lo spazio di un’estate e ci sono storie d’amore che durano per tutta la vita. Ce ne sono poi alcune che superano i limiti temporali imposti dalla umana condizione, e sopravvivono per secoli, se non per millenni. La storia che vi racconterò oggi è proprio una di queste: vi dirò della bella principessa Alice e del suo perduto amore, vi dirò dei loro fugaci incontri e di come cedettero alla passione, e vi dirò di come tutto questo finì nel sangue.

lunedì 4 marzo 2013

Dark Side of Aspius

Grzegorz Kmin, noto tra gli illustratori come Aspius, è uno di quegli artisti che in un modo o nell’altro non possono lasciare indifferenti. Se non mi credete sulla parola, date un’occhiata ai lavori che ho incluso qui a corredo di questo post, e a quelli molto più numerosi visibili sul suo sito personale e su siti specializzati come DeviantArt ed Epilogue.
La sua biografia non è scarna come si potrebbe pensare. Polacco di Lodz, classe 1972, appassionato di arte dark e surrealista, fan (come me) di metal, gothic eccetera, e altre amenità del genere, ha fatto suo il motto di Stanislaw Grochowiak, un poeta suo conterraneo: “I prefer ugliness, it's closer to blood circulation". Amante della pesca, ha scelto come nome d’arte il nome di un pesce…
Aspius ha due grandi passioni, la biologia e l’arte, ed è riuscito a coniugarle entrambe in uno stile personalissimo. Dopo essere finito un po’ per ripiego con lo studiare biologia, diventando neurofisiologo, con il tempo riprese in mano la sua innata passione per le belle arti, diventando un artista eclettico che ha trovato nella tecnologia digitale (leggi: Photoshop, Poser, Illustrator…) uno straordinario mezzo di espressione. Attualmente è illustratore freelance, attività cui affianca quella di fotografo. Com’è ovvio che sia, i suoi lavori su commissione sono molto differenti da quelli creati per pura passione. Se i primi sono abbastanza convenzionali, è nei secondi che si esprime il suo estro e la sua predisposizione non comune per il dettaglio e per il macabro. Questa dualità, certo comune a moltissimi artisti, è qualcosa di cui lui stesso è ben consapevole, e ben simboleggiata dai due diversi sfondi scelti per il suo sito: nero per il Dark Side e bianco per il Bright Side. Le due parti in cui è divisa la sua anima, scommetto.
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