venerdì 30 novembre 2012

Un premietto di fine novembre

Ringrazio innanzitutto la simpatica Romina Tamerici che qualche giorno fa mi ha insignito dell’ambito Premio UNIA, un premio il cui significato si perde nella notte dei tempi. Di cosa si tratta? In buona sostanza è un meme, uno di quei virulenti passaparola che di tanto in tanto si affacciano senza preavviso nella blogosfera. Il Premio UNIA è però anomalo rispetto allo standard, in quanto non costringe chi lo riceve a fare salti mortali per inventarsi delle domande diverse da porre alle sue eventuali vittime. In questo caso si tratta semplicemente di rispondere a sette semplici domande su un argomento, tra l’altro molto interessante: il proprio rapporto con la letteratura. Accetto di buon grado l’invito a partecipare a questa kermesse ed andrò a rispondere qui di seguito tra pochi istanti. Prima però mi piacerebbe capire cosa significa UNIA. Sembrerebbe un acronimo, il che mi fa temere che chi se lo è inventato avesse in mente qualcosa di ben preciso. Faccio quindi una rapida ricerca su Google: UNIA potrebbe essere un’università andalusa (poco probabile), potrebbe essere un album dei Sonata Arctica (difficile), un sindacato svizzero (men che meno), un’organizzazione panafricanista (ma dove?), un villaggio della Polonia centrale (sì, e poi?). Provo quindi a risalire la corrente, di blog in blog, per vedere se riesco a raggiungere la sorgente. Impresa quanto mai lunga e complessa, mi rendo subito conto. Sono riuscito a risalire fino allo scorso mese di marzo, dopodiché tutti i miei tentativi si infrangono contro blog chiusi e ormai inaccessibili. L’unico indizio è il nome del suo ideatore che veniva citato dai primi partecipanti al meme: Korè. Provo a cercare un blogger che risponda a tale nome ma senza successo: anche Korè sembra svanito nel nulla. Che faccio? Alla fine rinuncio e passo a rispondere alle domande. P.S.: Lo dico subito a scanso di equivoci, non nominerò nessuno alla fine del post. 

domenica 25 novembre 2012

Chilam Balam (making of)


Kukulkàn è il nome che i Maya davano al dio Serpente. Egli lasciò la sua gente per intraprendere un viaggio verso i luoghi dai quali proveniva: prima di andare promise che sarebbe tornato. I Maya attesero il suo ritorno per oltre cinque secoli finché, un venerdì santo dell'anno 1519, non arrivò dal mare un uomo dalla barba bianca. I Maya lo accolsero come il loro tanto atteso Messia, e lo adorarono. Il suo nome era invece Hernán Cortés: un equivoco che finì per distruggere la  loro civiltà.
Se qualcuno ha avuto la pazienza di leggere tutte le cinque parti del racconto Chilam Balam, appena giunto alla sua conclusione, non avrà potuto fare a meno di farsi delle domande. Moltissime sono infatti le cose lasciate volontariamente in una sorta di sospensione forzata, una specie di limbo.  Cercare di dare delle spiegazioni a tutto, a mio parere, significava banalizzare eccessivamente la trama. Diciamo quindi che ognuno può elaborare la propria interpretazione della storia. Che cos’era quel luogo oltre la soglia? Qual è il significato dell’invecchiamento precoce del protagonista? Ma soprattutto chi era davvero colui che si faceva chiamare Kukulkàn, per quale motivo egli trascina il suo giovane amico in un’avventura del genere per poi, apparentemente, cambiare idea e abbandonarlo? Qual è il ruolo dei Maya in questa storia? È solo un caso che il mio racconto appaia su questo blog solo poche settimane prima del tanto annunciato evento relativo alla fine del calendario Maya? In questo “making of”, ve lo dico già da subito, non avrete risposte.

sabato 24 novembre 2012

Chilam Balam (Pt.5)

Seguivo il mio uomo a prudente distanza lungo il sentiero, ben attento a non farmi notare. La salita era ripida e faticosa, ma la mia volontà di procedere era più forte. Quella mattina mi ero alzato di buon’ora e mi ero appostato ad un angolo della piazza con la precisa intenzione di attendere Kukulkàn al varco. Qualunque cosa avesse in mente, qualunque cosa avesse intenzione di fare, io sarei stato la sua ombra. Non gli avrei permesso di dileguarsi nuovamente. Lo avrei seguito con discrezione e, solo al momento giusto, avrei rivelato la mia presenza. Indossavo un giaccone scuro che un precedente inquilino aveva dimenticato nella stanza dove alloggiavo. La fortuna sembrava avesse deciso di restarmi accanto: con quel giaccone addosso avrei meglio potuto nascondermi ai suoi occhi. Non dovetti attendere molto: nemmeno mezz’ora e il portone verde si spalancò e quel viso apparve sulla soglia. Eccolo. Era proprio lui, Kukulkàn o come diavolo si chiamava. Lo vidi esitare qualche secondo, guardarsi in giro e, dopo essersi sollevato il cappuccio sul capo, incamminarsi. Io gli tenni dietro. 
Prese la strada che, uscendo dal paese, portava (a quanto dicevano le indicazioni) al sito archeologico. Mi unii ad un gruppo di turisti che aveva la stessa meta: così mescolato ad un gruppo di persone avrei dato meno nell’occhio. Il sentiero prese a salire sempre più ripidamente. La fatica dopo un po’ cominciò a farsi sentire, ma il mio uomo continuava a procedere di buon passo, senza dare alcun segno di incertezza, ed io non potevo essergli da meno. Per fortuna anche buona parte dei turisti ai quali mi ero unito riusciva a tenere un buon passo, per cui potevo continuare a rimanere nel gruppo.

venerdì 23 novembre 2012

Chilam Balam (Pt.4)


Mi aggiravo per il paese con aria smarrita. La sera doveva essere calata già da qualche ora. I pochi passanti che incrociavo passavano via veloci, forse erano gli ultimi ritardatari che si affrettavano verso le loro case dopo una dura giornata. Solo pochi negozi avevano ancora le saracinesche sollevate, prevalentemente dei bar. Come potevo essere stato così stupido? Due giorni di viaggio, due interi giorni su quella maledetta corriera ed eccomi qui, completamente solo in un luogo sconosciuto, senza la minima idea di cosa fare, senza nessun posto dove andare. Quel maledetto individuo si era dileguato senza una parola. Dove era andato? A quale fermata era sceso? Che diavolo. Se non voleva avermi tra i piedi, tanto valeva che non si facesse trovare l’altra mattina alla fermata. Perché trascinarmi in un viaggio senza senso fino a qui? Già, qui… ma che posto era questo? Non avevo nemmeno la minima idea di dove mi trovassi. Maledizione.
Ad ogni modo non potevo continuare per molto ad agire passivamente. Tra poche ore anche l’ultimo bar avrebbe chiuso ed io dovevo prima di tutto risolvere il problema della notte incombente. Non avevo preventivato l’ipotesi di dover passare la notte all’addiaccio. In questo paese doveva senz’altro esserci una locanda o qualcosa di simile in cui cercare ospitalità fino alla mattina seguente, e quale miglior posto di un bar per ottenere le informazioni che mi servivano? Mi affacciai su quella che aveva tutta l’aria di essere la piazza principale. C’erano diversi bar lungo il perimetro, alcuni coraggiosi avventori conversavano comodamente seduti sui tavolinetti posti all’esterno, ogni tanto si sentivano delle risa. Questo paese non era poi così morto come in un primo momento mi era sembrato.

giovedì 22 novembre 2012

Chilam Balam (Pt.3)


All'inizio del XX secolo gran parte della giungla che circondava Palenque, una delle città più importanti della regione centrale del territorio appartenuto ai Maya, ritornò alla luce, con lo splendore dei suoi monumenti, dopo più di un millennio di abbandono. All’interno del sito archeologico il ritrovamento più importante fu senza dubbio quello della tomba del re K'inich Janaab' Pakal (Pacal il grande). La tomba, un sarcofago di pietra rossa, era chiusa da un'enorme lastra rettangolare ricoperta di incisioni intricate. Sollevandola, fu rinvenuto un tesoro di manufatti d'arte Maya. Il viso del defunto era protetto da una splendida maschera a mosaico di giada, con gli occhi di conchiglia e le iridi di ossidiana. La mummia indossava orecchini e gioielli ed era alta 1.73 cm, fatto che suscitò una grande sorpresa, dal momento che l'altezza media dei Maya contemporanei a Pacal era di 1.50 cm. Gli archeologi registrarono un'ulteriore stranezza: era usanza dei Maya schiacciare il cranio dei neonati perché si riteneva che la forma allungata fosse un attributo estetico di grande valore, ma il corpo nel sepolcro non presenta questa deformazione nel cranio. In altre parole, il corpo di Pacal non corrispondeva a quella che era la fisicità dei Maya e quindi Pacal non era evidentemente un Maya come tutti gli altri. Ma un particolare ancora più singolare era rappresentato dalla lastra che copriva il sarcofago: al centro di essa era raffigurato un uomo in una strana posizione. Le sue mani e i suoi piedi sembravano impegnati a manovrare pedali e manopole, la testa pareva essere appoggiata su un supporto, nel naso un qualcosa dalla forma triangolare che a molti ricordava un inalatore. L'uomo era inserito in una struttura molto simile a un razzo; a rendere più marcata la somiglianza con un razzo sono le fiamme chiaramente disegnate sul retro.

mercoledì 21 novembre 2012

Chilam Balam (Pt.2)

Quella notte la trascorsi in bianco. La mia mente continuava a ritornare agli avvenimenti occorsi il pomeriggio precedente. Come poteva quell’uomo essere sparito nel nulla? E che fine aveva fatto il libro sul quale era stato chino fino a solo poche ore prima? Ma soprattutto, qual era il segreto racchiuso in quelle pagine, segreto che quell’uomo dava la netta impressione di conoscere? Qual era infine il significato delle parole che mi aveva rivolto? Fu solo verso l’alba che la stanchezza mi vinse e finalmente mi addormentai. Quando mi svegliai il sole aveva già compiuto oltre la metà del suo compito quotidiano: a giudicare dalla luce che filtrava dalla piccola finestra della mia stanza, doveva essere infatti già tardo pomeriggio. Mi misi seduto, mi stropicciai gli occhi e mi guardai attorno. La stanza in cui vivevo in quegli anni non si poteva certo definire una reggia: si trattava di un pertugio di tre metri per due ricavato a lato di un vecchio fienile. Il contadino che mi ospitava era un vecchio amico di mio padre e, per affetto nei suoi confronti, acconsentì di ospitarmi in cambio solo di qualche piccolo lavoretto. Oltre alla brandina dove dormivo c’era solo una sedia e, accanto alla finestra, una piccola scrivania dove passavo il mio tempo a studiare. Non ci volle molto prima che i fatti appena vissuti mi tornassero alla mente, ed ero ora più che mai convinto di dovermi recare nuovamente in biblioteca. In cuor mio conservavo la speranza che l’incontro con quello strano individuo si fosse rivelato nient’altro che un brutto sogno. Mi gettai sul sentiero e, camminando di buona lena, giunsi ben presto in città. La piazza antistante la biblioteca era semideserta. Mi guardai un po’ in giro nel tentativo di riconoscere qualcuna delle facce a me note, ma senza successo. Le prime ombre della sera facevano capolino e pertanto decisi di non indugiare oltre e di infilare rapidamente la porta dell’edificio.

martedì 20 novembre 2012

Chilam Balam (Pt.1)

I fatti che sto per narrare potrebbero sembrare frutto della fantasia di un folle. Sinceramente io stesso non posso escludere che lo siano. Ciò di cui sono stato testimone la notte scorsa è talmente fuori da ogni logica che ho creduto subito opportuno annotarne le parti salienti in questo mio diario, affinché ne possa rimanere traccia allorché la mia vita su questa terra giungerà alla sua conclusione. Il mio corpo è precocemente invecchiato e sento che quell’anelito di vita che è rimasto in me si sta, ora dopo ora, sempre più affievolendo. Devo scrivere in fretta, prima che sia troppo tardi. Dio solo sa cosa ne sarà di questa mia povera anima dopo il trapasso! Quando la mia intera esistenza verrà giudicata, non potrò non rendere conto dei segni incancellabili che i recenti avvenimenti hanno causato alla mia anima.
Mi chiamo Manuel Mendoza e ho 23 anni. Solo fino ad un paio di settimane fa la mia vita fu quella di un normalissimo giovane dall’animo puro e ingenuo che intendeva abbracciare la fede cattolica e farne lo scopo della propria esistenza. Nonostante ciò, la mia mente era molto aperta e curiosa e dedicavo buona parte del mio tempo non solo alla lettura dei testi sacri, ma anche a quei polverosi quanto affascinanti volumi che di tanto in tanto prendevo a prestito dalla biblioteca dell’Università, qui a Città del Messico. Mi appassionava in particolar modo un manoscritto dal significato oscuro proveniente da una non meglio precisabile epoca lontana. Non ne riporterò qui il titolo perché credo sia meglio che quel libro si perda nell’oblio: solo adesso mi rendo conto infatti di quanto terribili fossero quelle pagine, se interpretate nel modo corretto. 

mercoledì 7 novembre 2012

Lupus in Canada

Rivisto a diversi anni dalla sua uscita, "Licantropia Evolution" (Ginger snaps) fa ancora un certo effetto. Questo piccolo film canadese del 2000 non è affatto un teen-movie, come di primo acchito si potrebbe pensare. Anch’io ho creduto questo trovando il DVD in un cestone a pochi euro, comprandolo senza troppe aspettative e approcciandolo con le stesse, minime, pretese. Bisogna dire che in tal senso il titolo non aiuta: in inglese suona bene, non si discute, ma sembra un po’ puerile e inoltre si confonde facilmente con Ginger Snaps: Unleashed, il titolo del secondo capitolo della storia datato 2003. Incredibile a dirsi, in italiano siamo riusciti a fare di peggio: Licantropia evolution non solo è anonimo, ma si confonde altrettanto facilmente con "Licantropia Apocalypse", il titolo scelto per il film successivo. Dato che una traduzione decente di Ginger snaps in italiano sarebbe stata impossibile, sarebbe forse stato il caso di lasciare i due titoli in lingua originale… Comunque se di teen-movie si tratta, lo è esclusivamente nella misura in cui i protagonisti sono tutti adolescenti e la trama associa in maniera molto originale la trasformazione in licantropo al passaggio alla pubertà della protagonista, la Ginger del titolo; siamo ben lontani dalle atmosfere ridanciane di Voglia di vincere , tanto per fare un esempio: qui la messa in scena è veramente inquietante e il sangue scorre a fiumi. Inoltre si introduce qualche elemento di novità non disprezzabile. Dimenticatevi tutti i luoghi comuni che conoscete: in questo film la licantropia non è una condizione temporanea, ma una trasformazione che diventa permanente con il sorgere della prima luna piena e che modifica la vittima non soltanto nel fisico, ma anche nell’indole. Dimenticatevi anche i proiettili d’argento: per uccidere un licantropo qui basta davvero molto poco. Inoltre lo sceneggiatore accenna ad una cura, anche se provvisoria, per la licantropia, ripresa pari pari dalle credenze popolari. Questa’idea nella filmografia licantropica ha già almeno un precedente: mi viene in mente "Il lupo mannaro di Londra" (Werewolf, 1935) in cui l’antidoto era però il fantomatico fiore Marifasa (Mariphasa lupina lumina) originario del Tibet, e probabilmente ci sono chissà quanti altri esempi che al momento non mi sovvengono. Ma come al solito ho divagato e torno quindi a Licantropia evolution

venerdì 2 novembre 2012

On the Eating of Books

“Some books are to be tasted, others to be swallowed, and some few to be chewed and digested.” (Francis Bacon) -  “Quel libro è stato davvero avvincente: l’ho divorato.” Quante volte abbiamo sentito pronunciare una simile frase? Quante volte l’abbiamo pronunciata noi stessi? L’atto del divorare un libro è qui visto naturalmente in senso figurato: se il contenuto di un libro è particolarmente interessante non è improbabile che lo si riesca a portare a termine in breve tempo, che si possa venire coinvolti a tal punto che diventa quasi impossibile staccarsi dalla lettura, escludendo la realtà e immergendosi profondamente nell’universo immaginario descritto in quelle pagine. Esiste un’altra espressione idiomatica che così recita: “Quel libro è proprio difficile: faccio fatica a digerirlo”. Ecco quindi che per meglio assorbire i contenuti di un testo ci vediamo costretti non solo a mangiarlo, ma pure a portare a compimento il ciclo digestivo. Bizzarro, no? 
C’è invece chi i libri li divora per professione, costretto a scrivere recensioni di due o tre romanzi alla settimana, oppure chi è incaricato da una casa editrice di selezionare le migliori tra le migliaia di proposte giunte da una moltitudine di aspiranti scrittori o sedicenti tali. In questo caso divorare un libro è più una necessità che un piacere. Si dice che esistano dei metodi di lettura veloce che i più esperti non esitano ad applicare per poter sopravvivere. Uno di questi è la lettura in diagonale: si legge la prima parola di un rigo, la seconda parola della riga sottostante, la terza di quella sotto ancora e così via. Teoricamente, una volta giunti alla fine del testo, dovrebbe rimanere, in qualche angolo remoto del cervello, abbastanza da poterci scrivere sopra una recensione. La ricetta? Condire il tutto con due note biografiche sull’Autore, aggiungere un pizzico di contesto storico, mescolare il tutto ed ecco sfornata la recensione. 
Una recensione di cui nessuno potrà contestare l’esattezza, perché tanto i lettori sono rimasti in pochi e quei pochi non andranno certo a verificare, dopo aver letto il libro in questione, cosa ne aveva scritto quel tizio su quella rivista.
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...