venerdì 24 febbraio 2012

Il castello di Otranto

Direi che questo passaggio era inevitabile. In un blog dove si ha la pretesa di parlare (tra l’altro) di letteratura e (tra l’altro) di gotico, non poteva mancare un piccolo omaggio a quello che unanimemente è stato riconosciuto come il primo romanzo gotico della storia, quello che ha mostrato la strada a decine di romanzieri, famosi e non, che ci hanno narrato di castelli, principi, cavalieri e damigelle. Sto parlando, se non si fosse capito, de “Il castello di Otranto” di Horace Walpole. Ma cosa posso dire che non sia già stato scritto? Forse è meglio fermarsi un attimo e riflettere sul da farsi. Dovrei raccontarne meraviglie, con il rischio di apparire identico a centinaia di altri recensori, oppure dovrei stroncare impietosamente quest’opera, sottolineandone i difetti? Credo né che l’una né l’altra strada siano in ogni caso facilmente percorribili. Sarebbe ingiusto non riconoscere a “Il castello di Otranto” la sua importanza, se contestualizzata al periodo in cui è stata scritto. Sarebbe però altrettanto ipocrita esaltare un romanzo che, in buona sostanza, è pieno zeppo di incongruenze, ingenuità, forzature e quant’altro. Lo stesso Walpole, d'altra parte, non era del tutto convinto del suo lavoro, visto che nella prefazione alla prima edizione (1764) sosteneva  di essere solo il traduttore di un testo, stampato a Napoli in caratteri gotici nell’anno1529, ritrovato in quegli anni nella biblioteca di un’antica famiglia cattolica dell’Inghilterra settentrionale.

domenica 19 febbraio 2012

Le visioni iconoclaste di Trouille

"Non ho davvero mai lavorato per vincere un premio in una qualsiasi biennale di Venezia, ma piuttosto per meritarmi dieci anni di carcere ed è questa la cosa che mi sembra più interessante". Clovis Trouille è un pittore francese poco conosciuto in Italia (in italiano non è stata realizzata nemmeno una voce in Wikipedia). Per chi volesse quindi cimentarsi nella ricerca di qualcosa su di lui non c'è molto. Solo chi conosce il francese può avere accesso a qualche informazione visitando il sito a lui dedicato oppure questo forum che gli dedica un po' di spazio.
Ho voluto perciò riempire questi vuoto scrivendo un post su di lui e, in particolare, sui suoi lavori più dichiaratamente anticlericali. Traumatizzato dal servizio militare durante la Seconda Guerra Mondiale, Clovis Trouillle sostiene infatti che il militarismo e il clericalismo rappresentino i due principali nemici dell'umanità.

giovedì 16 febbraio 2012

L'imitation du cinéma

"Tutto quel che faccio, è un modo di passare il tempo, nulla a che vedere con l'arte o la letteratura. E' un'attività particolare poco più eleborata di quella delle formiche e dei ragni. Non potrei immaginare per un solo istante che ciò che faccio è un lavoro. La parola lavoro mi fa orrore”. In questo modo descrive se stesso Marcel Mariën (1920-1993) poliedrico artista belga, allievo di René Magritte.
Poeta, saggista, filosofo, fotografo, storico, disegnatore, Marcel Mariën fu una delle figure più intriganti del movimento surrealista di André Breton, che "si fonda su visioni oniriche, sul recupero della prolifica immaginazione infantile, sulla malattia mentale come rivelatrice di verità, sull'abolizione della logica in favore dell'automatismo".
Per usare parole semplici, il surrealismo è un escamotage per materializzare qualunque fantasia, anche la più malata, confezionarla ad arte, metterci magari un bel fiocchetto, e spacciarla per qualcosa di talmente colto e geniale da non poter venire intesa che da pochi magnifici adepti. Ammetto che la mia affermazione possa sembrare riduttiva e sono certo che avrò fatto storcere il naso a qualcuno. D'altra parte lo confermano le parole dello stesso Mariën, che ho citato qui sopra in apertura di post, e sono certo che decine di artisti o pseudo-tali abbiano sposato il surrealismo proprio per non dover essere costretti a spiegare i propri lavori o per giustificare quelli venuti male.

venerdì 10 febbraio 2012

Gozzano e la cattiva signorina

Non amo che le rose che non colsi. Non amo che le cose che potevano essere e non sono state… È strano come, a volte, i ricordi tornino alla mente quando uno meno se li aspetta. Sarà il periodo particolare che sto vivendo, ove tutto (il privato, il lavoro) sembra in equilibrio precario, ma d’improvviso mi sono venuti alle labbra i versi più celebri di questa poesia. Allora ho voluto fare una ricerca per rileggerne il testo, che ricordavo solo in parte. Rileggendola mi sono commosso, non so bene se per la poesia di per sé o per i ricordi che mi ha riportato alla mente, legati ad un periodo meraviglioso e ormai irraggiungibile qual è stata la mia infanzia. C’è un ricordo, in particolare, così strettamente legato a questa poesia da provocarmi sempre stupore. Difatti, non appena mormorata la strofa automaticamente ho ripensato anche a questo episodio, se volete insignificante, che mi è accaduto da ragazzino (non so bene quanti anni avessi, ma probabilmente ero all’ultimo anno delle elementari o in prima media).

lunedì 6 febbraio 2012

La belva nell'ombra

Solitamente quando l’idea di un film nasce da un romanzo, quello che ne viene fuori è una boiata. Oserei affermare che si tratta di una regola assoluta, con pochissime accezioni (una di queste è Shining, dove il talento di Stanley Kubrick e il brutto muso di Jack Nicholson hanno di fatto reso immortale un romanzo che altrimenti sarebbe rimasto catalogato tra le opere minori di Stephen King). Ma non è di questo che parlerò oggi. L’argomento del giorno appartiene a tutt’altra epoca e luogo. Si tratta de “La belva nell’ombra” (陰獣, Injū), romanzo datato 1928, partorito dall’inesauribile fantasia del più grande giallista giapponese di tutti i tempi: Edogawa Ranpo (江戸川 乱歩), al secolo Hirai Tarō (平井 太郎). Da questo libro è stato tratto nel 2008 un film diretto da Barbet Schroeder che, come volevasi dimostrare, si piazza lontano anni luce dalla sua fonte di ispirazione. Dopo aver letto il romanzo, ho voluto comunque dare una piccola possibilità alla pellicola, giusto per rispetto al curriculum del regista che scusate se è poco, fu il primo a portare sul grande schermo le storie autobiografiche di Charles Bukowski (Barfly con Mickey Rourke e Faye Dunaway, nel 1987) e, prima ancora, nientemeno che la musica dei Pink Floyd (colonna sonora del suo More del 1969 e de La Vallée del 1972). Purtoppo, come ho detto, "Inju, la bête dans l'ombre" di Schroeder fallisce proprio negli aspetti più importanti, vale a dire quelli che sono i veri punto di forza dell’originale: la suspense e l’atmosfera.

giovedì 2 febbraio 2012

Violent Virgin

Koji Wakamatsu, (若松孝二,) non è un comune regista. Possiamo tranquillamente definirlo il maestro indiscusso del surrealismo giapponese: I suoi film sono una raccolta, spesso al limite delle comprensibilità, di parole, pensieri e immagini, messe insieme senza freni inibitori o scopi preordinati. Essi ci mostrano ciò che sta oltre il razionale, immagini nitide e reali ma accostate tra di loro senza alcun nesso logico apparente. Siamo di fronte a quella che definirei una “esperienza onirica visualizzata” e di questo, Koji Wakamatsu, che in mezzo secolo e più di carriera ha girato oltre cento film, è un maestro. Esperienza onirica spesso rappresentata da rapidi passaggi tra bianco e nero e colore, come a voler distinguere con questo piccolo artificio il sogno dalla finzione. Ma non aspettiamoci che vi sia una regola assoluta: in questo “Violent Virgin” (処女ゲバゲバ, Gewalt! Gewalt: shojo geba geba) del 1969, l’uso del colore intende inizialmente sottolineare il sogno, ma poi ad un certo punto il nostro si mette ad utilizzare i due sistemi in maniera assolutamente casuale, spiazzando completamente lo spettatore che, non senza fatica, sta già disperatamente cercando di dare un filo logico ad una trama che sembra non averlo. Con un trucco molto simile, il nostro regista ha cercato di distinguere il presente dal passato in quella piccola perla intitolata “Go Go Second Time Virgin, girata lo stesso anno di Violent Virgin e del quale ho già ampiamente parlato proprio qui non molto tempo fa).
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