lunedì 16 gennaio 2012

Lights Out

Mi risulta un po' difficile tornare a scrivere su questo blog dopo gli avvenimenti recenti. Purtoppo quello che è stato è stato e non è più possibile tornare indietro. Ricomincio quindi il mio percorso di blogger con la recensione di un album, uno tra i più tristi della mia sconfinata collezione. Sto parlando di "Lights Out", opera seconda della band britannica Antimatter, datata 2003, ovvero il progetto di Mick Moss e Duncan Patterson, amici di lunga data ritrovatisi dopo l’uscita di quest'ultimo dagli Anathema. Tutto è nero in questo disco, non solo la copertina. L'atmosfera è cupa, priva di luce (Lights out, appunto). Ed è proprio il buio il vero protagonista dei 60 minuti di musica offerti dalla band. La notte è la sua ambientazione. Due stridenti sirene aprono le danze, sirene che richiamano alla memoria i tristementi noti allarmi che ai nostri nonni usavano preannunciare i bombardamenti. E' il coprifuoco anche per noi. Rifugiamoci al sicuro delle tenebre e lasciamoci avvolgere dalla title-track.  
Le sensazioni che scorrono nell'ascoltatore sono solitudine, abbandono, disagio e smarrimento. I looked to the skies, Turning away with blackened eyes. I'm a stranger on a train, you're all strangers on a train. Sorry to confuse you, but all that you know is wrong and there's just no name for whats gone on scrive Mick Moss nella splendida Everything you know is wrong che, sull'edizione limitata, troviamo nuovamente in versione acustica in chiusura dell'album. Tutto il cammino intrapreso lungo le otto tracce è un incedere sofferto. Viene la tentazione di mollare tutto, spegnere il lettore CD, aprire le finestre e lasciare entrare la luce. Ma non è possibile. Si procede come ipnotizzati dalla voce della vocalist femminile, Michelle Richfield, stupenda ed eterea voce di band doom ormai dimenticate, quali Dominion e Sear.

Innocence and irony. A a dark shade of fantasy as the serpent slips right into me. Living out your fallacy. I'm just another casualty of casual insanity. Summers white cause the sun has gone, but it wont be long til tomorrow comes and youre on the run with what you've taken. Knowing what I should have known, I'm staring at the telephone, and I think our god has been and gone, but I'm still waiting. I've a solution. A final solution. Questo è il punto di non-ritorno. Se ci si è inoltrati nell'ascolto della lunghissima quarta traccia, vale a dire Expire, ci si ritroverà catapultati in un mondo terrificante, prima solo turbati dalla voce ovattata di Michelle, poi completamente ipnotizzati e infine resi folli dall'angosciante cantilena che ci ripeterà più volte, impietosamente, I've a solution. A final solution. E' l'attimo supremo. Il climax assoluto. Nulla potrà mai essere uguale a prima. Si rimanda indietro la traccia e la sia riascolta di nuovo, più volte. La testa comincia a girare vorticosamente. I cinque sensi comuni perdono sensibilità. Ne subentrano altri, meno conosciuti, forse pericolosi per noi che non siamo abituati ad averci a che fare. Siamo in una dimensione diversa ora. Riusciremo a ritornare a casa?

Si affronta Terminal, ultimo strumentale brano dell'album con ormai poche speranze. Il titolo stesso non lascia presagire nulla di buono. Invece l'arpeggio di una chitarra acustica ci apre una piccola luce. Forse non è tutto morte e dolore? Forse c'è una speranza? No, non c'è nulla. Il brano prende nuovamente una strada ancora più tetra e cupa. Un brivido ci scorre lungo la schiena. E' il momento della resa. L'impietosda rassegnazione all'inevitabile. Un ticchettio elettronico continuo, quasi il freddo suono di una macchina che monitorizza i battiti del cuore di un paziente in fin di vita, segna la fine dell'album, quasi a simboleggiare la morte di ogni speranza. Tutte le luci si spengono. Lights Out.

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